E&M

2010/5

Gianmario Verona

Tra Scienza e Realtà. Una terza via per unire rilevanza e rigore

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In un recente articolo pubblicato sul Corriere della Sera Angelo Panebianco illustrava uno dei limiti principali che sembrano caratterizzare oggigiorno la scienza. A fronte di indiscussi pregi – che spaziano dall’opportunità di fornirci leggi che consentono di vivere meglio a principi di evoluzione paradigmatica che, col trascorrere del tempo, tendono a sconfiggere modelli teorici anacronistici – le scienze si caratterizzano tuttavia per una tendenza all’autoreferenzialità che le porta, in alcuni momenti storici, a essere poco sensibili agli sviluppi del mondo e a porsi in qualità di dogmi più che di scienze a servizio dell’umanità[1]. Questo tipo di problema, seppur ascrivibile a tutte le scienze, mi sembra soprattutto rilevante per le scienze sociali (ingiustamente definite “soft”) che, a differenza delle scienze fisiche e biologiche (quelle appunto “hard”), sono più giovani e presentano una particolare complessità nell’osservazione e misurazione dei fenomeni.

Tra di esse, il campo scientifico del Management (nel nostro paese etichettato sotto i raggruppamenti scientifici di Economia Aziendale, di Economia e Gestione delle Imprese e di Organizzazione Aziendale) presenta in misura decisa questo problema. Non a caso, una delle critiche che sempre più spesso si sentono nei corridoi delle business school di tutto il mondo, a partire dagli Stati Uniti – paese che ha dato loro vita – riguarda una sorta di autoreferenzialità dei ricercatori rispetto al mondo della pratica. Secondo questa critica, i ricercatori sarebbero prevalentemente interessati al rigore della dimostrazione scientifica, rispetto alla rilevanza per la realtà aziendale e imprenditoriale. Svolgendo le loro ricerche – ed essendo fortemente influenzati da queste finalità anche nello svolgimento della loro attività didattica – si allontanerebbero progressivamente dai problemi concreti, cioè dalla realtà dei problemi con cui sono chiamati a confrontarsi i manager d’impresa. La complessità in questione mi sembra arricchita dal cosiddetto “paradosso del vantaggio competitivo”, secondo cui uno dei principali oggetti di studio del campo del Management – il vantaggio competitivo, appunto – presenta il problema di essere imitato dalla concorrenza una volta creato: in quanto tale, tenderebbe a svanire o comunque mutare nel corso del tempo. Tutto ciò renderebbe osservazione e misurazione ancora più complesse rispetto a quanto accade nel caso di altri fenomeni e di altre discipline.

Credo che, in realtà, l’origine di questo mal di pancia sia insito nella stessa natura delle business school. Da quando sono nate, all’inizio del secolo scorso, hanno sempre avuto l’ambizione di ricercare e insegnare problemi rilevanti per il management e per le imprese[2]. Per poter insegnare con sufficiente certezza, e per discostarsi quindi da quanto potrebbero fare le società di consulenza o gli stessi campus che le grandi imprese hanno sviluppato a partire dall’esperienza Xerox negli anni settanta, hanno però l’esigenza di sviluppare modelli e teorie. Hanno cioè l’esigenza di produrre conoscenza stabile nel tempo e dimostrabile. Così facendo, hanno ingenerato una sorta di trade-off tra rilevanza per la pratica (missione che devono servire per soddisfare le loro audience) e rigore scientifico (principio che devono seguire per essere affidabili e acquisire credibilità). Quanto si sente spesso richiamare, quindi, altro non sarebbe se non una lamentela circa la consapevolezza che la coperta è corta, e la scienza manageriale subisce il costante strattonamento tra problemi applicativi della pratica che caratterizza le principali funzioni nelle quali si articola un’azienda (dalla ricerca e sviluppo alle vendite, passando attraverso la formulazione della strategia competitiva e le politiche di marketing) e le tre discipline scientifiche che la alimentano, e cioè: Economia, Sociologia e, sempre più frequentemente, Psicologia. Più la coperta è tirata dalla parte della pratica, più si rischia di perdere il rigore scientifico della verifica delle teorie e dei modelli proposti – Popper parlerebbe più propriamente (anzi, rigorosamente!) di falsificazione[3]. In questo modo, non solo si renderebbero infelici gli studiosi delle scienze in questione, ma si rischierebbe di produrre una conoscenza estremamente debole e, in quanto tale, non in grado di descrivere un principio generale, ma di spiegare il solo caso particolare oggetto di analisi. Più, invece, la si tira dalla parte delle scienze che alimentano il Management, più verrà favorito il rigore. Il rischio è che ciò avvenga a scapito della rilevanza. Per essere infatti certi che quanto postulato sia non solo corretto per il singolo caso oggetto di analisi ma, più in generale, valido in date condizioni, è spesso necessario formulare una relazione più ampia per poterla non solo descrivere ma anche misurare e sottoporre a tutta una serie di verifiche. In sintesi, si assiste a un costante trade-off tra scienza e realtà la cui soluzione sembrerebbe chiedere solamente compromessi, legati al fatto che la coperta è appunto corta.

Con riferimento specifico alla giovanissima disciplina del Management (una delle colonne portanti delle business school), i cui primi trattati risalgono agli anni venti e trenta del secolo scorso, dopo aver oscillato per anni dalla parte della pratica, negli ultimi anni il pendolo è sembrato tendere soprattutto dalla parte della teoria. Originariamente, con riferimento al campo del General Management e della Strategia (ma ciò vale anche, per esempio, per Account­ing, Marketing e Innovazione), gran parte dei modelli sono stati sviluppati da società di consulenza e da executive che prestavano una quota del loro tempo professionale a insegnare nelle scuole di business. Ne sono dimostrazione i manuali di Strategia prodotti a livello mondiale dalla Harvard Business School, che per prima si propose di sintetizzare le conoscenze sul tema a partire dalla fine degli anni sessanta[4]. Principi e modelli quali le economie di scala, le curve di esperienza, il portafoglio prodotti, per non parlare della relazione tra quota di mercato e redditività aziendale, altro non sono se non evidenze applicative emerse nella pratica e successivamente cristallizzate in teorie, esposte nei primi libri di Management e insegnate nelle principali business school internazionali. Il celebre modello della concorrenza allargata (volgarmente detto “delle cinque forze”) ad opera di Michael Porter, che è stato formulato nel 1979 e che ha insegnato ad almeno due generazioni di alunni la logica di fondo del vantaggio competitivo, altro non è se non la summa delle evidenze empiriche emerse nel vicino campo dell’Economia Industriale. Queste evidenze, se aggregate, potevano adeguatamente informare i manager su cosa è bene e cosa è meno bene fare per proteggere il valore prodotto dalla propria azienda rispetto all’azione strategica dei concorrenti. Per avvalorare ulteriormente quanto affermato, basti sfogliare le pagine della rivista più accreditata in campo di Strategia – Strategic Management Journal – nei suoi primi numeri, che datano 1980. Molti dei modelli sono semplicemente concettuali, in quanto solamente dedotti dalla logica; le evidenze empiriche sono per lo più qualitative se non aneddotiche; il metodo impiegato è frequentemente quello dei casi; le relazioni statistiche, se presenti, sono semplici correlazioni e non complessi modelli basati su regressioni. Tra gli autori, oltre agli accademici, non infrequentemente si annoverano i cosiddetti practitioner, ovvero anche businessmen e consulenti – da cui l’importanza per le business school dell’integrazione tra A, B e C, e cioè gli acronimi dei tre attori in questione (academics, business and consultants).

Grazie al consolidamento della metodologia della ricerca, negli ultimi anni il pendolo si è mosso bruscamente sul fronte opposto. Lo strattonamento sembra peraltro essere accresciuto negli ultimi anni con la rilevanza metodologica delle tre discipline madri del Management (Economia, Sociologia e Psicologia, appunto) e con l’impiego di brillanti ricercatori formati nelle tre discipline e assunti nei ranghi delle scuole in questione. Sfogliando le pagine delle riviste di Management si riscontra in misura evidente l’importanza della dimensione rigore: i rumors di cui sopra direbbero “il suo primato rispetto a quella della rilevanza!”. Se ne ha ulteriore prova leggendo uno dei manuali di Management e Strategia oggi più amati dagli accademici, il Besanko, Dranove, Shanley e Schaefer, ricco di lunghe dissertazioni microeconomiche e di modelli empiricamente consolidati e, non a caso, frutto del pluriennale lavoro di sintesi di quattro importanti economisti della Kellogg School of Management dell’Università di Northwestern[5].

Ma il trade-off tra rigore scientifico e rilevanza per la pratica è un dato di fatto cui noi ricercatori dovremmo arrenderci? È effettivamente impossibile conciliare rigore e rilevanza? La tesi presentata in queste pagine è che esista in realtà una sorta di terza via. E questa terza via giace nello spazio di interazione armoniosa tra rilevanza per la pratica e rigore scientifico. Questa terza via può assumere diverse forme che, per semplicità, assoceremo a tre soluzioni principali.

La prima, decisamente più netta e radicale, si riconduce a una scelta di campo più marcata circa la disciplina del Management. Uno spunto interessante è stato offerto lo scorso anno nell’ambito degli Study Days del PhD in Business Administration and Management dell’Università Bocconi (un momento di dibattito particolarmente ricco di occasioni di riflessione tra studenti di dottorato e professori di fama internazionale) in cui uno dei più stimati accademici a livello mondiale del campo di Management, Dan Levinthal, a capo di una commissione di ricerca costituita per approfondire il ruolo della ricerca nel Management a Wharton (la business school dell’Università della Pennsylvania), si domandava se forse alla fine non valesse la pena che i ricercatori di Management seguissero l’esempio dell’Ingegneria, che negli anni si è emancipata dalla Fisica e dalla Chimica per creare un campo applicativo che presenta una sua nobiltà indipendentemente da altre scienze. Anziché, cioè, cercare di “imitare” (come, secondo alcuni, oggi accade soprattutto negli Stati Uniti) psicologi, sociologici ed economisti, e a volte di importare sic et simpliciter metodi e problemi tipici di Economia, Sociologia e Psicologia, gli studiosi di Management potrebbero pensare di definire meglio il campo di azione della propria disciplina e ambire a diventare veri e propri scienziati sociali di Management. Aspetto che ho trovato particolarmente interessante è che anche Dan Levinthal, famoso più per aver dato enfasi al rigore nei suoi studi che per aver divulgato le sue idee ai manager, evidentemente avverta il crescente mal di pancia di cui sopra.

Una seconda soluzione, che pure sembra proporre una sorta di delimitazione spaziale dei confini disciplinari, per quanto più smussata, è stata recentemente proposta da due studiosi americani di Harvard e Stanford, Mike ­Tushman e Charles O’Reilly, nell’ambito di un dibattito sul ruolo di MBA e business school[6]. Prendendo a riferimento la matrice di Stoke sull’innovazione tecnologica, essi affermano che in realtà non vi sia un vero e proprio problema di “coperta corta”, in quanto rigore e rilevanza sono due dimensioni ortogonali, che possono intrecciarsi tra loro piuttosto che ergersi lungo un continuum[7]. In tale matrice, si ipotizza che la ricerca scientifica possa infatti essere svolta servendo due scopi: quello della comprensione corretta dei problemi (fondamentalmente il suo rigore scientifico) e quello dell’utilità dell’impiego della conoscenza da essa prodotta (essenzialmente la rilevanza per la pratica). In quanto ortogonali, le due dimensioni possono così comporre una classica matrice 2X2, come si può osservare dalla figura 1 (si veda il pdf allegato).

La ricerca scientifica può anzitutto essere svolta senza badare molto alla rilevanza per la pratica, ma prediligendo invece il rigore, ovvero la comprensione profonda fine a se stessa – quadrante a nord-ovest. Per esempio, la scoperta della struttura dell’atomo da parte di Neils Bohr è stata essenziale per l’approfondimento ulteriore della struttura molecolare, ma relativamente rilevante per la pratica nell’immediato. Specularmente, essa può prediligere l’impiego ovvero l’utilizzo applicativo che ne deriva a scapito della conoscenza profonda, e cioè del rigore. Il quadrante a sud-est indica questa soluzione, metaforicamente ascrivibile al più grande inventore di tutti i tempi: Thomas Edison.

A fronte di queste due soluzioni estreme, la ricerca può però anche nascere ed essere motivata sia dalla comprensione profonda dei fenomeni sia dell’impiego della conoscenza da essa prodotta. Il quadrante in questione, localizzato a nord-ovest, che in questo gioco di analogie con grandi scienziati e inventori viene associato a Pasteur – l’inventore della Microbiologia – sta semplicemente a dimostrare che esiste una ricerca premiante per entrambe le dimensioni. Questa, osservano Tushman e O’Reilly, è la dimensione cui bisognerebbe tendere soprattutto in contesti attivi per la pratica come sono le business school. Difatti, il problema fondamentale delle scuole di business rispetto ai dipartimenti disciplinari è quello di dover servire anche la popolazione di studenti legati a esigenze lavorative molto specifiche (dai master agli executive) e, aggiungerei, anche ai fund-donors che pure spesso si caratterizzano per un interesse nell’attività di ricerca svolta dalle business school. Al criterio del rigore, che regna sovrano nei dipartimenti disciplinari, occorre quindi affiancare quello della rilevanza per queste popolazioni, che rappresentano, oltre agli stessi ricercatori, i target della ricerca.

Personalmente sono molto affascinato sia dall’idea dal quadrante di Pasteur come mandato della ricerca svolta dalle business school sia dall’idea che economisti aziendali, gestionali e organizzativi diventino degli “ingegneri” nel campo dell’Economia. Ritengo, però, che entrambe le soluzioni siano, allo stato attuale, un po’ premature: è giusto che comincino a essere dibattute, ma richiedono ancora molto tempo per essere metabolizzate culturalmente e quindi successivamente disegnate e implementate. Probabilmente, necessitano anche che il pendolo oscilli un po’ più nell’area centrale, anziché completamente da una o dall’altra parte, come è invece avvenuto negli ultimi quarant’anni, in cui si è passati a uno scenario che favorisce prevalentemente la rilevanza prima e il rigore poi.

Una soluzione più dolce, che da anni, nel mio piccolo, cerco di mettere in pratica e che mi capita spesso di provare a trasferire anche ai miei studenti, ricerca la terza via in maniera più semplice, a partire cioè dagli attuali vincoli. Questa terza via mira semplicemente a trasformare il trade-off in trade-on. Come dire: cerca di allungare la coperta e renderla più calda. Questa idea giace nella delimitazione più attenta dei confini della ricerca da svolgere, più che nello spazio di azione delle business school rispetto ai dipartimenti disciplinari. Per presentarla mi servirò del campo di studi che meglio conosco, quello dell’innovazione e dell’Innovation Management, per illustrare come si possa cercare di svolgere una ricerca armoniosa che dia spazio al rigore senza compromettere la rilevanza.

Nel mio campo di studi originariamente il dibattito teorico è stato concentrato nel tentativo di capire le fonti ultime di innovazione. In particolare, le posizioni su cui esso verteva si riconducevano alla differenza tra “technology push” (la spinta tecnologica prodotta dalla scienza e dalla tecnologia) e “market pull” (il traino del mercato in tutte le sue forme, dalla concorrenza ai clienti). Riuscire a comprendere chi, tra mercato o tecnologia, conti in misura superiore nel formare innovazioni incrementali e radicali e, soprattutto, cercare di illustrare le condizioni contingenti alla loro importanza aiuta certamente a comprendere meglio il fenomeno in questione. Ma è un tema rilevante? Da giovane e ingenuo ricercatore, anni orsono cominciai un progetto di ricerca di questa natura andando a chiedere a manager di aziende biotecnologiche e farmaceutiche e a scienziati che ne popolavano i laboratori: “Scusi, ma lei ritiene sia più importante il traino del mercato o la spinta tecnologica nel creare e sviluppare innovazioni?”. Come potete immaginare, le risposte non furono molto lusinghiere. Per esempio, una scienziata particolarmente brillante di una start-up del San Raffaele di Milano, mi disse: “Senta, mi scusi sa, ma siamo nel 1995: secondo lei questo è un problema rilevante?”. Eppure, oggi siamo nel 2010 e chi studia Innovation Management è attratto ancora da questo annoso quesito, che tuttora spopola nelle riviste accademiche e che porta gruppi di studiosi a propendere per l’importanza della voce del cliente rispetto all’influenza dei laboratori di ricerca e sviluppo e delle relazioni con l’università per produrre brevetti. Da allora ho imparato che donne e uomini di business non hanno tempo da perdere e che è opportuno cercare di fornire loro un servizio per poterli coinvolgere nel progetto di ricerca.

Cosa rende, quindi, la ricerca rilevante nel campo dell’Innovation Management? Mi piace prendere a esempio quattro studiosi, portatori di una visione rilevante e allo stesso tempo robusta dell’innovazione, e il cui percorso scientifico ricordo sempre ai miei studenti di dottorato come esemplare: Mike Tushman, Eric von Hippel, Rebecca Henderson e Clayton Christensen.

Mike Tushman ha fatto carriera presso la Columbia University sui temi di Organization Behavior. Il suo contributo seminale nel campo dell’innovazione ha portato a dimostrare che le grandi aziende sono irretite dalle loro competenze di fronte agli shock tecnologici e che non possono superarli se non mutando competenze. Dopo aver dimostrato empiricamente questa fondamentale relazione, Tushman, con il collega O’Reilly, sta spendendo gran parte del suo recente percorso di ricerca ad aiutare le aziende a capire come superare questi shock sviluppando una struttura ambidestra – che, da un lato, sfrutti le competenze attuali e, dall’altro, maturi nuove competenze per le frontiere dell’innovazione. Il libro Winning Through Innovations (Harvard Business School Press, 1997) è stato un bestseller alla fine degli anni novanta e il recente articolo sull’ambidestrismo di IBM, pubblicato su California Management Review, una rivista ampiamente divulgativa, ha vinto il premio di miglior articolo della rivista del 2009.

Eric von Hippel è invece un ingegnere, impiegato da sempre alla Sloan School of Management del Massachusetts Institute of Technology. Da giovane Assistant Professor a inizio anni settanta, anziché farsi prendere dal dibattito di cui sopra verificò che il traino del mercato nel caso di alcuni beni industriali (soprattutto macchinari scientifici ad alta precisione) è talmente rilevante che alcuni clienti industriali erano in grado di anticipare la stessa azienda fornitrice nell’articolazione delle specifiche riguardanti l’innovazione. Questa osservazione qualitativa, emersa in una serie di casi aziendali, è stata nel tempo verificata su un campione rappresentativo di imprese e, nel corso degli anni, estesa ai beni di largo consumo grazie all’avvento di Internet, che permette alle aziende di connettersi direttamente con i propri utenti tramite comunità virtuali. Il percorso di von Hippel e dei suoi allievi è stato un crescendo di verifica della sua idea, resa sempre più particolare (quali gli strumenti impiegati dai clienti? Quali le parti di prodotto sviluppate? Quale il ruolo specifico nelle varie fasi del processo di sviluppo del prodotto? Come democratizzare il processo di innovazione?) ma, al contempo, sempre più significativa e quindi robusta nella verifica empirica. Il rigore e la rilevanza della ricerca di von Hippel sono ben testimoniati dalle costanti pubblicazioni sulle riviste accademiche e dal successo editoriale dei suoi due libri, Sources of Innovation (MIT Press, 1988) e Democratizing Innovation (MIT Press, 2005), che le hanno raccolte in due momenti storici diversi.

Rebecca Henderson, cui ho avuto l’onore e il piacere di fare da Research e Teaching Assistant nel 1997 e nel 1998, è attualmente professore di Harvard e ha trascorso gran parte della sua carriera presso la Sloan School of Management del MIT. Mentre si stava diplomando dottore di ricerca ad Harvard alla fine degli anni ottanta, cominciò a studiare una serie di imprese del settore fotolitografico e del farmaceutico, in cui osservò la presenza di peculiari sistemi di incentivo per favorire la creazione di conoscenza finalizzata all’innovazione e la sua integrazione tra varie funzioni aziendali (in particolare, la ricerca di base e quella applicata). Dopo aver pubblicato queste evidenze in due articoli apparsi su riviste top del management e dell’economia industriale (Administrative Science Quarterly e Rand Journal of Economics), si è dedicata negli anni novanta a testare la sua teoria e a renderla dimostrabile su campioni rappresentativi del settore farmaceutico, divulgandola anche su riviste per practitioner come Harvard Business Review.

Clayton Christensen, anche lui professore di Harvard, è pure un bell’esempio di “innovatore” nel campo dell’innovazione. Grazie a un’invidiabile casistica maturata nel campo dei disk drive, Christensen ha dapprima sviluppato l’intuizione del problema di allocare le risorse a favore dei clienti principali, che non amano grandi innovazioni sul prodotto salvo poi acquistare quelle dei concorrenti una volta che questi le introducono nel mercato. In un secondo momento, ha formalizzato questa idea in un modello di innovazione denominato “disruptive”, che ha cercato di testare in parecchi ambiti settoriali con i suoi allievi. Christensen è oggi molto criticato perché ha fatto un po’ un brand del suo nome e delle sue disruptive innovation – Harvard University Press ha pubblicato ben cinque libri negli ultimi dodici anni sulle ­ disruptive innovation, e Christensen scrive una media di un articolo all’anno su Harvard Business Review. Addirittura, è stato costituito un fondo di investimenti disruptive al NYSE – fondo che, come gli ha fatto notare un collega, ha falsificato la sua teoria nella maniera più profonda, visto che è fallito! Ciò comunque non toglie che la sua visione teorica abbia arricchito la comprensione del tema innovazione e abbia soprattutto dato spazio in maniera robusta a un problema rilevante per la pratica.

Cosa accomuna i ricercatori di cui sopra? Una caratteristica la si riscontra proprio nel trade-on tra rilevanza e rigore, a partire da un’attenta analisi di casi qualitativi: singole evidenze, cioè, che ci illuminino con intuizioni originali e non banali; utili per la pratica, ma che non trovano ancora risposte da un punto di vista scientifico. A partire da queste intuizioni e questi casi, i ricercatori di cui sopra si caratterizzano per la voglia e la determinazione di dimostrare in un secondo momento le relazioni ipotizzate: e la dimostrazione non può che avvenire su larga scala, con campioni di imprese possibilmente non solo cross-sectional, ma longitudinali, e che permettano di sviluppare modelli econometrici sufficientemente robusti con le dovute variabili di controllo.

Che fare quindi? In estrema sintesi, preferisco vedere il bicchiere mezzo pieno che mezzo vuoto, ovvero intuisco più opportunità che minacce prodotte dalla coperta “rilevanza-rigore”. Personalmente, ripeto, non so valutare se sia già sufficientemente lunga da coprire un nuovo campo disciplinare del Management, un nuovo ruolo della ricerca nelle business school o, poiché un po’ corta, richieda fantasia e creatività per cercare di trasformare il trade-off in trade-on. La cosa importante, però, è non cadere nella trappola del trade-off fine a se stesso, che porta a tifare per una (i ricercatori “duri e puri”) o l’altra fazione (gli “amanti” della rilevanza a ogni costo). Anche perché, come sempre più spesso accade nel nostro amato paese in tanti settori e per tante questioni, che spaziano dalla politica al calcio, questo avverrebbe in funzione del proprio credo e delle proprie competenze. E porterebbe a soluzioni sterili. L’unico vero servizio che possiamo fare alla scienza e alla realtà del Management è cercare di produrre teorie interessanti e valide – e in quanto tali falsificabili – che siano di aiuto per i manager: solo così aiuteremo il Management non soltanto a crescere e fortificarsi, ma anche magari, un giorno, come già oggi avviene nel campo del Consumer Behavior con riferimento alla Psicologia[8], a dare importanti spunti di riflessione alle discipline nate precedentemente e che fino ad oggi hanno teso solo ad alimentarlo senza prestargli ascolto.

1

Panebianco A., “Neodogmatici: quando gli scienziati non ammettono errori”, Corriere della Sera, 6 giugno 2010.

2

Harvard Business School presso il campus di Harvard e Tuck School of Business presso il Dartmouth College sono le prime due business school nate rispettivamente nel 1908 e 1900.

3

Popper K.R., Poscritto alla logica di scoperta scientifica Vol 1. Il realismo e lo scopo della scienza, il Saggiatore, 1994 (II edizione).

4

Si veda per tutti l’analisi storica prodotta nel primo capitolo del libro di testo di Pankaj Ghemawat, Strategy and the Business Landscape, Pearson, 2005, II Edition.

5

Besanko D., Dranove D., Shanley M., Schaefer S., Economics of Strategy, Wiley 2007, III Edition.

6

Tushman M.E., O’Reilly C., “Research and Relevance: Implications of Pasteur’s Quadrant for Doctoral Programs and Faculty Development”, The Academy of Management Journal, vol. 15 (4), pp. 769-774, 2007.

7

Stokes D.E., Pasteur’s Quadrant: Basic Science and Technological Innovation, Brookings Institution Press, 1997.

8

Ai più scettici rispetto a questa ultima affermazione suggerisco la lettura del libro: Arieli D., Unpredictably Irrational, 2008, Harper Collins.