E&M

2002/6

Claudio Dematté

Per alcune imprese italiane è urgente una strategia paneuropea

Scarica articolo in PDF

Negli ultimi anni un numero crescente di imprese italiane, oltre a intensificare gli sforzi di penetrazione nei principali mercati europei, ha intrapreso anche strategie di acquisizione di imprese locali con il fine dichiarato di dare un maggiore radicamento alla propria presenza nei mercati target. La stessa strategia viene perseguita dalle imprese degli altri paesi europei. Anzi, molte si erano avviate su questa strada alcuni anni prima, com’è documentato anche dall’elevato numero di imprese italiane acquisite da imprese europee. Un nome per tutte: Zanussi, che pure era stata all’avanguardia nel processo di espansione europea, acquisita anni fa dalla svedese Electrolux. Questa spinta verso una più radicale strategia paneuropea ha preso velocità all’indomani degli accordi di Maastricht e più ancora da quando è diventata certa l’introduzione della moneta unica europea. Il fondamento teorico di questo sviluppo sembra reggersi sulla seguente sequenza logica:

1. la dominanza del mercato domestico in strategia è una condizione sine qua non per avere successo all’interno e nelle successive proiezioni verso l’estero;

2. per le imprese europee il mercato domestico non è più il singolo mercato di origine, ma l’Europa intera;

3. ciò è dovuto sia al fatto che i singoli mercati nazionali sono basi insufficienti in molti settori per dare massa critica e solidità economica alle imprese che pur li dominano, sia alla circostanza che con i vari provvedimenti intrapresi dalla Commissione Europea, non ultimo la creazione di una moneta unica, si va formando un’area economica che, pur conservando ancora marcate diversità, presenta però sempre minori barriere agli scambi transnazionali;

4. le imprese che più velocemente raggiungono un più profondo radicamento nei vari mercati nazionali europei possono intraprendere vigorosi processi di riorganizzazione e di incremento di efficienza che conferiscono loro un forte vantaggio competitivo rispetto alle imprese che si confinano all’interno dei singoli mercati nazionali;

5. le imprese, per accelerare il processo di penetrazione nei diversi mercati nazionali e per dare profondità e radicamento alla loro presenza, sono obbligate a imboccare anche la strada delle acquisizioni. In subordine devono fare conto su joint venture a forte controllo. La via della semplice esportazione non basta, in gran parte dei settori.

Se questi sono i capisaldi logici sui quali si reggono le strategie paneuropee, ne derivano alcune conseguenze altrettanto importanti, e specificamente:

a. è dimostrato che le acquisizioni, ma anche le joint venture, sono fra le operazioni più difficili, soggette ad alto tasso di fallimento. Per condurle con successo occorre dotarsi di know-how e di management preparato;

b. le acquisizioni difficilmente possono essere finanziate con i flussi di cassa provenienti dalla gestione ordinaria. Esse presuppongono la volontà e la capacità di ricorrere ai mercati finanziari, in particolare al mercato del capitale di rischio;

c. per molte imprese, il ricorso al capitale di rischio esterno comporta una modifica dell’assetto proprietario, l’inserimento di soci finanziari, la diluizione del controllo e l’adozione di forme di governance in linea con le attese del mercato;

d. per le imprese familiari e, in generale, quelle a proprietà chiusa l’adozione di una strategia paneuropea costituisce un “salto strategico doppio” verso il quale è comprensibile che maturino apprensione, cautela o resistenza.

Proprio in virtù delle difficoltà insite in questo tipo di strategia, è necessario riflettere con attenzione sui punti 1-5 per accertarne il fondamento e verificare se una strategia paneuropea imperniata anche su acquisizioni sia effettivamente una necessità o se sia possibile percorrere altre linee di sviluppo altrettanto efficaci e profittevoli.

La strategia paneuropea è una strada obbligata?

No, non lo è in termini generali. Vi sono anche altre alternative: quella di ampliare lo spazio coperto, uscendo dai confini del proprio mercato nazionale per coprire uno o più paesi, ma non necessariamente l’Europa intera. Ma vi possono anche essere alternative diverse: raggiungere un buon posizionamento (meglio se la leadership) nel proprio mercato nazionale e poi allargarsi in altri mercati non necessariamente europei. La strategia di impresa – quasi per definizione – non è generalizzabile. È specifica e diversa per ogni impresa, in funzione delle peculiarità del settore o perfino del comparto, in relazione alla base di partenza e alle competenze accumulate, e anche in rapporto con le ambizioni e il livello di rischio che l’imprenditore è disposto ad assumere.

Ma anche se ogni impresa ha la sua strategia, gli economics propri del settore nel quale essa opera dettano le regole del gioco, che di norma ammettono più di una, ma non un numero infinito di strategie competitive.

A dispetto del fatto che negli ultimi anni si sono sviluppate tecnologie produttive che consentono la produzione a costi economici, anche di lotti contenuti e perfino di prodotti personalizzati, e benché vi siano diversi settori (o diverse attività all’interno della filiera dei vari settori) dove sembra non esserci vantaggio alcuno nel possedere una maggiore dimensione – anzi, in alcuni casi perfino un incentivo all’operare nel sommerso –, per molte altre attività la dimensione conta: se non è per la presenza di economie di scala, lo è per effetto delle “curve di esperienza”, che fanno scendere i costi in funzione della produzione cumulata; oppure lo è per la struttura ad alti costi fissi e bassi costi marginali tipica di certi tipi di prodotti, come quelli di software o dei film, o di certe attività che si reggono su piattaforme costose nell’impianto ma con bassi costi operativi. Anche la necessità di continue innovazioni, alzando la soglia degli investimenti in R&S, presuppone, per il mantenimento dell’equilibrio economico, soglie dimensionali d’impresa maggiori per ripartire tali costi su basi più ampie. In altri casi, a sospingere le imprese verso il controllo di mercati geografici più ampi sono le logiche di brand management che comportano investimenti in comunicazione che si ottimizzano solo al di là di certe soglie di fatturato. Infine, la stessa necessità di ridurre la volatilità della domanda tipica di questi tempi richiede di operare su più mercati, possibilmente caratterizzati da andamenti asincroni, meglio se con un forte controllo sulla distribuzione.

In breve, nelle condizioni attuali per molti settori è necessaria una scala operativa più ampia di quella ottenibile operando sui singoli mercati nazionali europei, che sono relativamente piccoli. E ciò vale non solo per le imprese che perseguono strategie di presenza nei mercati di massa con politiche di costo. Ma vale anche per le imprese che scelgono di competere con strategie di differenziazione e di nicchia mirando a singoli segmenti di mercato. Molte imprese statunitensi hanno potuto raggiungere dimensioni superiori alla soglia minima ottimale sul loro stesso mercato, che è largamente superiore a quello di ognuno dei mercati nazionali europei. La stessa cosa è accaduta per le imprese giapponesi, che contano su un mercato interno quasi doppio rispetto a quello della Germania riunita.

Come possono le imprese dei vari paesi europei darsi una massa critica in grado di contrastare i concorrenti che possono contare su un mercato domestico più ampio? Possono pensare di raggiungere la soglia dimensionale necessaria coprendo, oltre al mercato domestico, una serie di altri mercati esteri comunque disposti? Oppure, per avere un successo duraturo hanno bisogno di una base più sicura (più “domestica”), meno soggetta ai rischi di variazione dei tassi di cambio, meno esposta ai rischi di politiche doganali avverse? È pensabile che il mercato europeo, anziché uno dei mercati nazionali, possa costituire la base “domestica” sulla quale le imprese europee possono costruire anche la loro competitività extraeuropea?

Per rispondere a questi interrogativi occorre riflettere su uno dei principi probabilmente più profondi ma meno dimostrati dell’analisi strategica: quello che vede nel controllo del territorio minimo di sopravvivenza il cardine primo di una strategia di successo. Il principio è derivato dall’osservazione dei comportamenti delle specie viventi[1] e si articola nel seguente modo: 1. ogni specie vivente ha bisogno, per la sopravvivenza, della propria dose di risorse, che è diversa da specie a specie (concetto equivalente della soglia dimensionale minima); 2. il territorio necessario per assicurarsi quel volume di risorse è quello vitale (concetto equivalente al mercato minimo per garantirsi la dimensione di sopravvivenza); 3. questo territorio deve essere presidiato con il massimo livello di controllo, pena l’estinzione (concetto equivalente a quello della necessità di avere una posizione di leadership nel proprio mercato domestico).

L’osservazione delle imprese leader (vedasi la strategia della General Electric) fornisce indizi, anche se non prove scientifiche, che questo principio è effettivamente alla base della loro strategia. Esse dapprima definiscono la soglia dimensionale minima, alla luce degli specifici economics di quel settore e del posizionamento prescelto; poi identificano i mercati che è necessario controllare per raggiungere quella soglia dimensionale; infine, si adoperano per avere la leadership e controllare in modo ferreo quei mercati.

Se il raggiungimento della soglia dimensionale minima o ottimale non può ottenersi sul solo mercato domestico, è meglio contare su un insieme discreto di mercati nazionali anche distanti fra loro – per geografia, per contesto istituzionale, per cultura e per prassi operative – oppure è preferibile appoggiarsi su qualche cosa di più omogeneo, più interconnesso: qualche cosa che assomigli il più possibile a un mercato domestico?

L’Europa, con l’eliminazione di qualsiasi barriera doganale, con la moneta unica, con un insieme comune di normative, con una politica volta a eliminare le barriere fra i vari mercati nazionali, sembra prestarsi molto meglio per costituire l’equivalente del grande mercato domestico americano o giapponese. Certo, ci sono ancora differenze di lingua, differenze normative, culture diverse: ma il mercato unico europeo costituisce una base molto più sicura per fungere da “territorio vitale”.

Se così è, per le imprese di tutti quei settori per i quali sono necessarie soglie dimensionali che superano le dimensioni dei singoli mercati nazionali, una strategia paneuropea è un punto di passaggio obbligato. È necessario non soltanto esportare in questi mercati, ma esercitare su di essi un controllo molto più profondo, con presenze dirette nella distribuzione – come minimo all’ingrosso – con centri locali di assistenza dei clienti, anche con produzione locale, se necessario ed economico. Occorre, in breve, diventare insider autentici e non solo esportatori, meno che meno esportatori discontinui. Solo con un controllo duraturo e profondo di questo più ampio spazio economico le imprese che operano in settori in cui la dimensione conta possono avere volumi sufficientemente certi di fatturato che consentano una sistematica estrazione delle curve di esperienza, una specializzazione degli stabilimenti per linee di prodotto, uno sfruttamento del potere contrattuale negli acquisti, una ripartizione dei costi di R&S che non penalizza la competitività.

Per una strategia paneuropea sono proprio necessarie le acquisizioni?

Come ho detto poco sopra, ciò che è veramente importante per organizzare un sistema produttivo competitivo nelle attività dove la dimensione conta è il livello di controllo sul mercato. Non è sufficiente avere una massa di fatturato, comunque raccolta sui mercati più disparati. È necessario che essa sia sufficientemente stabile e controllabile dall’impresa; che non dipenda dalle decisioni politiche di altri paesi; che sia il più possibile captive. Un sistema produttivo organizzato per stabilimenti specializzati per prodotto o per componenti, che può contribuire sensibilmente a una strategia di competitività di costo, si può organizzare solo se c’è una sufficiente certezza che i volumi di fatturato giustificano siffatta organizzazione.

Il grado di controllo sul fatturato dipende dall’essere esso proveniente dal mercato domestico, da cui deriva l’importanza di avere un mercato domestico quanto più ampio possibile, e dalla modalità di presenza sui mercati esteri. Quanto più un mercato estero è controllato, quanto più si è insider, tanto più esso diventa equivalente a un mercato domestico.

Ecco, allora, che si pone il problema di come le imprese italiane (ma vale la stessa considerazione per quelle francesi o spagnole) dovrebbero porsi rispetto agli altri mercati europei. Per le ragioni già dette, questi mercati si possono considerare quasi domestici, perché godono della protezione derivante dai trattati sul mercato unico e della comune unità di misura rappresentata dall’euro. Affinché diventino ancora più domestici, occorre che le imprese vi si immergano con una presenza più incisiva: che i clienti le riconoscano come loro; che vi sia la protezione di una customer loyalty; che il trade non possa facilmente espellerle dai propri scaffali; che i posti di lavoro e gli interessi indotti fungano da garanzia di continuità.

Ecco perché ho affermato che è necessario superare il modello della mera esportazione, quella che lascia la merce in mano a un importatore locale che potrebbe cambiare scelte con facilità. Per superare la fase della semplice esportazione vi sono diverse possibili politiche: rilevare l’esportatore con la sua rete di distribuzione all’ingrosso; aprire unità commerciali che costruiscano la propria rete di vendita e di assistenza alla clientela; fidelizzare ancora di più i clienti con reti di vendita al dettaglio di proprietà o controllate (franchising); creare identificazione con la propria marca con campagne di comunicazione.

Sono tutte strade possibili. Ma soffrono tutte di due problemi: quello dei tempi, che sono lunghi, e quello delle difficoltà a vincere l’attrito di un nuovo entrante che deve farsi spazio in mercati già solitamente affollati.

Per questa ragione, là dove c’è urgenza di raggiungere una quota importante di quel mercato e di averne un elevato grado di controllo, si rende necessario procedere per acquisizioni, a dispetto di tutti i rischi che accompagnano questo tipo di operazioni. Solo l’acquisizione di una realtà storica porta in dote un radicamento già conquistato, una dimestichezza agli occhi dei clienti, una conoscenza intima del modo di operare, l’inserimento in un sistema di interessi locali: quindi, l’acquisizione di uno stato di insider, che concorre a far divenire quel fatturato conquistato più simile a quello di un mercato domestico. Queste sono le ragioni per le quali molte imprese, negli ultimi anni, si sono affrettate a realizzare una serie di acquisizioni nei singoli mercati europei. Di solito, dopo queste operazioni hanno proceduto a una radicale riorganizzazione dei loro sistemi operativi cercando un’ottimizzazione su scala europea: hanno rivisto la struttura produttiva, eliminando stabilimenti e specializzandoli; hanno ridisegnato la logistica; hanno reimpostato le politiche di innovazione concentrandole nei centri che presentavano vantaggi comparati. Ma tutto questo è stato possibile quando le imprese, in seguito alle loro acquisizioni, si sono trovate con un maggior volume di fatturato sotto il proprio controllo, con una serie talvolta ridondante di fabbriche, di centri di ricerca, di reti di distribuzione, di rapporti finanziari pregressi sulla cui ridondanza impostare la successiva riorganizzazione.

Prepararsi per una politica di acquisizioni su base paneuropea

Se quanto detto ha una sua plausibilità, si pone una serie di altre questioni. Le acquisizioni, specialmente quelle oltre confine, sono purtroppo fra le operazioni più difficili da gestire. I fallimenti sono superiori ai casi di successo.

Se le imprese vogliono imboccare questa strada, è necessario che si preparino adeguatamente operando su più fronti:

1. quello delle competenze;

2. quello finanziario.

Sul fronte delle competenze bisogna prendere atto che il successo di un’acquisizione comincia molto prima della sua negoziazione. Prima ancora di trovare il prezzo giusto, è necessario accertare la congruenza fra il target e le strategie che l’impresa persegue. Ed è altrettanto importante esaminare la compatibilità fra le due culture d’impresa, essendo, questo, l’elemento più impalpabile ma anche più decisivo per l’operazione. Quando si compra un’impresa si cattura un fatturato, ci si impossessa di know-how tecnologico, si rileva una rete di vendita e di distribuzione, si compera un brand e un patrimonio di reputazione. Alcuni di questi beni sono intrinsecamente contenuti nel nome e nel patrimonio di beni e contratti dell’impresa, ma altri evaporano se le persone che li hanno costruiti e li presidiano per l’impresa se ne vanno.

Identificare e progettare un’acquisizione affinché sia funzionale alla strategia e apporti quanto è nelle promesse è un lavoro di management di tipo speciale; come lo è il preparare e il condurre le negoziazioni e poi gestire l’integrazione. Solo se l’impresa si prepara adeguatamente a questo passo e sa usare le professionalità esterne quando necessario ha probabilità di successo. Niente è così pericoloso come l’affrontare questi passaggi strategici con leggerezza prestando fede a professionalità dimostrate nella conduzione delle attività ordinarie. L’altro fronte sul quale occorre lavorare è quello finanziario. Le acquisizioni comportano investimenti di solito rilevanti, che mal si prestano a essere finanziati con le risorse provenienti dalla gestione corrente, a meno che non si tratti di imprese con redditività straordinaria. Esse richiedono di fare ricorso a liquidità precedentemente accumulata, oppure all’indebitamento o a nuove iniezioni di capitale di rischio. Solo per le imprese quotate può aprirsi la prospettiva di acquisizione con emissione di nuove azioni, e quindi tramite la diluizione per gli azionisti della società acquirente (come ha fatto Tiscali). Salvo il caso che l’acquisizione venga finanziata con uno stock di liquidità pregressa, si pongono importanti questioni di finanza straordinaria che hanno conseguenza sul livello di leverage e sull’assetto proprietario. Per questo una politica di sviluppo paneuropeo che passi attraverso acquisizioni ha l’effetto di costringere a rivedere in profondità anche il modello di gestione familiare delle nostre imprese. Costringe a creare spazi di autonomia professionale per manager qualificati, obbliga a rivedere i livelli di controllo azionario, costringe a impostare sistemi di governance in linea con la presenza di azionisti finanziari.

2

Hannan M.T. e Freeman J.H. (1977), “The population ecology of organizations”, American Journal of Sociology, 82, pp. 929-964