E&M

2002/5

Tra ragazzi una partita di calcio si organizza così: i prepotenti giocano all’attacco, i volonterosi a metà campo, gli scarsi in difesa, gli scarti in porta. La nullità assoluta fa l’arbitro, come dice un famoso cestista americano di colore: “Nel basket, solo i neri sanno giocare. Se i bianchi vogliono partecipare, devono accontentarsi di fare gli arbitri”. Questi uomini dal fischietto facile, se fossero davvero dotati, avrebbero fatto i calciatori. Per non sentirsi gli ultimi della classe hanno inventato i segnalinee, uomini piccoli, con in mano una piccola bandiera, in un piccolo spazio del campo, con una piccola visione del gioco. Ci mancava solo il quarto uomo, cui hanno affidato una lavagnetta perché sa contare da uno a cinque. Personaggi desiderosi di protagonismo, mostrano con sadismo il cartellino rosso al campione che invidiano e gli negano con supponenza un colossale rigore. Anche a distanza di anni, mai ammettono un errore. Sono l’arroganza fatta infallibilità. Questa è la spiegazione più benevola della disfatta coreana.

Due parole di commiserazione per il povero Blatter, il cui stipendio è tre volte quello di Bush. Per racimolare i voti necessari per essere rieletto presidente della FIFA distribuisce anche alle federazioni più malandate 64 fischietti, 128 bandierine da segnalinee, 64 lavagnette. Giochetto innocuo, visto che solo una squadra vincerà e 31 dovranno tornarsene a casa con le pive nel sacco. Autentici dilettanti allo sbaraglio, mandati in campo travestiti da arbitri e segnalinee, offrono agli sconfitti l’onore delle armi. È comodo essere eliminati per colpa di qualcuno. Questa è la spiegazione politica della sconfitta coreana. Alla fine di un corso di management a Coverciano diedi come tema d’esame l’analisi di un attore, a scelta, del pianeta calcio. I direttori sportivi si sbizzarrirono tanto che, dopo una sommaria lettura, bruciai tutti gli elaborati, con il beneplacito di Italo Allo di. Seppi così che la mia Atalanta dovrebbe una retrocessione in serie B alla contemporanea vittoria di una squadra genovese a Torino, risultato combinato in anticipo. Mi limito, per prudenza, a fatti oramai ampia mente prescritti. Questa è una possibile spiegazione dello sfacelo coreano.

Tanti svarioni arbitrali ci hanno regalato comodi alibi. Ma ci abbiamo messo del nostro. Siamo usciti anche per demerito, dimenticando che si vince attaccando. Quando si sostituisce una punta con un soldatino ringhioso in difesa ritorniamo a Caporetto, alla diga sul Piave. Neppure l’acqua santa del Trap poteva fare il miracolo. Sospetto che quel talismano fosse un viatico di sua sorella monaca. Trapattoni dice di non toccarlo sulla fede. Per carità, lo pizzico solo sulla speranza. Di fronte a una sconfitta ancora evitabile voltò le spalle al campo. Menava calci a dritta e a manca come un ossesso. Questa immagine di invasato l’hanno vista in diretta miliardi di persone. E deve aver fatto la felicità di quel simpaticone di Moreno l’equadoriano, che confonde l’arbitraggio con una sauna dimagrante. Come dargli torto quando afferma che gli italiani non sanno perdere? Il Trap certamente ha saputo che il papa, procedendo alla “purificazione della memoria”, ha chiesto perdono dei peccati di un intero millennio. Mi accontenterei di venti giorni: ma sarebbe dignitoso che anche Trapattoni ci chiedesse scusa per il modo con cui abbiamo perso il campionato e la faccia. A meno che non ci confermasse vero un sospetto: che i coreani gli avevano manomesso l’acquasantiera. Niente ampolla di Lourdes. Era caffeina.