E&M

2018/3

Fabrizio Perretti

Dall’equilibrio politico al catastrofismo ecologico

Anche a livello manageriale, le decisioni non sono il risultato di fenomeni improvvisi, ma di condizioni storiche e rapporti di potere

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Il management è una disciplina relativamente recente, poco più di un centinaio d’anni se si considera l’opera di Frederick Winslow Taylor – The Principles of Scientific Management (1911) – come uno dei testi fondanti. Nel momento in cui nasce e si propone come corpus teorico degno di ricerca e di trasmissione nelle aule universitarie, il management ha la necessità di legittimarsi in quanto disciplina[1]. Così come era già avvenuto per la sociologia e l’economia nei confronti della fisica (di stampo newtoniano), le nuove discipline che aspiravano a una legittimazione scientifica si sono sempre richiamate ai modelli e alle prospettive delle scienze già consolidate. Anche il management non si è sottratto alla ricerca di riferimenti esterni. Una delle prime prospettive di riferimento è rappresentata dalla scienza/arte politica[2]. Si tratta inizialmente di una prospettiva rivolta quasi esclusivamente all’interno dell’impresa, focalizzata cioè sull’organizzazione del lavoro subordinato, sui meccanismi di autorità e di controllo e sul contenimento del conflitto capitale/lavoro che potesse compromettere l’efficienza produttiva degli impianti industriali. A questa prospettiva interna si sostituisce progressivamente una visione esterna fondata sul concetto di strategia militare. Riprendendo il concetto di strategia elaborato da von Clausewitz[3], che di fatto considera il conflitto militare come estensione della politica con altri mezzi, il focus si sposta sulla concorrenza esterna, sul «nemico» da vincere e sul vantaggio competitivo su cui si fonda tale vittoria.

Il passaggio dalla politica alla strategia, che si riflette anche nella ridenominazione dei corsi da «Business Policy» a «Strategic Management»[4], apre il management alla sua seconda prospettiva di riferimento principale: la biologia e, in particolare, le teorie darwiniane (e spenceriane) sulla lotta per la sopravvivenza e sulla selezione naturale della specie più adatta. Oltre a essere concetti che ben si adattavano alla descrizione di «conflitti» come quelli caratteristici della strategia militare applicati al campo delle organizzazioni, l’adozione all’interno della biologia della prospettiva ecologica[5], fondata cioè sul concetto di ambiente, sposta ulteriormente il focus del management all’esterno. Senza entrare nel dettaglio di questo spostamento di prospettiva, è importante comprendere come tale riferimento abbia influenzato alcune delle recenti teorie manageriali, non solo nelle potenzialità riconducibili a tale visione, ma anche e soprattutto nei limiti da questa derivanti.

Vorrei soffermarmi su tre concetti che occupano una rilevanza nella pubblicistica di management e che sono riconducibili a tale cambiamento di prospettiva: il concetto di disruption, di resilienza e di strategia oceano blu. Il concetto di disruption è ormai un classico della strategia[6] e si riferisce a cambiamenti tecnologici che sconvolgono la struttura di mercato e minacciano la sopravvivenza delle imprese esistenti. A differenza del concetto schumpeteriano di «distruzione creatrice», che vede nell’innovazione un processo di mutazione incessante e costante, la disruption descrive invece un cambiamento radicale e improvviso che, più che determinare la mutazione delle specie esistenti, ne provoca l’estinzione in tempi molto brevi. Se la distruzione creatrice assomiglia quindi ai processi graduali di selezione naturale darwiniani, la disruption ricorda i processi di estinzione di massa in cui un evento catastrofico (l’eruzione di un vulcano o la caduta di un asteroide) sconvolge l’ambiente esistente e provoca la scomparsa di alcune specie.

È in questo scenario «catastrofico» che emerge il concetto di resilienza delle imprese e delle organizzazioni in generale (ma che è stato applicato anche agli individui). Il concetto nasce nell’ambito dell’ecologia all’inizio degli anni Settanta e descrive il grado di perturbazione che un sistema in equilibrio può sopportare prima che le variabili che lo controllano cambino radicalmente[7]. La resilienza viene quindi interpretata come la capacità di assorbire i cambiamenti e di continuare così a esistere. Si tratta cioè di una possibilità di resistenza e di una strategia di sopravvivenza ai cambiamenti, in cui l’assunto di fondo è sempre il primato del contesto esterno, alla cui sorpresa e imprevedibilità dei cambiamenti deve corrispondere la capacità di adattarsi delle organizzazioni in attesa che il sistema rientri nelle condizioni iniziali.

Esiste però un’altra alternativa all’adattamento e alla resilienza: la ricerca di nicchie e di condizioni di mercato inesplorate in cui le imprese trovano un ambiente incontaminato – l’oceano blu – in cui creare un nuovo mondo ove dettare le proprie regole e sottrarsi (temporaneamente) alla concorrenza cruenta e sanguinosa dell’oceano rosso[8].

Il management è soggetto a mode passeggere[9] in cui spesso, purtroppo, vengono utilizzati nuovi concetti per dire cose molto banali o cose già conosciute utilizzando termini nuovi. Anche in questi casi, capirne l’origine e la prospettiva che ne sta alla base è però tutt’altro che un esercizio inutile. Utilizzare una prospettiva biologica ed ecologica nel campo delle imprese e delle organizzazioni è infatti un’operazione che deve essere sempre effettuata con estrema cautela, riconoscendo innanzitutto i limiti di alcune analogie[10]. In primo luogo che le imprese non sono organismi naturali ma creazioni sociali e, in quanto tali, non sono soggette a leggi naturali. La prospettiva ecologica nel campo delle imprese ha inoltre creato un campo semantico che si riflette in alternative strategiche di fuga e di resistenza in uno scenario apocalittico di crisi e di sopravvivenza. Probabilmente questo è il risultato delle vicende storiche ed economiche di questi decenni (anche se le origini sono più estese nel tempo), ma per affrontare le sfide future forse sarebbe opportuno nel campo del management recuperare la prospettiva politica degli inizi, in cui le decisioni non sono il risultato di fenomeni che colpiscono le imprese come eventi meteorologici, ma di condizioni storiche, di rapporti di potere, sia di conflitto sia di cooperazione, e di visioni di progresso che forniscono uno scopo e una direzione.

Prospettiva politica che è quanto mai opportuno recuperare anche nel caso degli immigrati e dei migranti, oggetto del dossier di questo numero. Anche in questo caso si sono spesso utilizzati termini apocalittici per descrivere un fenomeno storico e si sono anche suggerite strategie individuali e sociali di resilienza, su come assorbire il presunto shock esterno per continuare a esistere e ritornare a situazioni pregresse o «incontaminate». Da un punto di vista sociale ed economico sono invece necessarie strategie di accettazione, di cambiamento e (in questo caso l’analogia biologica può essere utile) forse anche di mutazione e di trasformazione di ciò che siamo.

1

Quando viene fondata la Harvard Business School (1908) si riconosce esplicitamente nei suoi documenti fondativi come il concetto di Business Administration «as a department of University training, has still, to a large extent, to invent its appropriate means of instruction and to form its own traditions».

2

Le riflessioni sul management quale scienza o arte sono presenti fin dalla sua fondazione. Anche in questo caso, nella costituzione della Harvard Business School si riflette tale duplice natura: «Not only must the fundamental principles guiding conservative business be elucidated, but the art of applying those principles in the various fields of business enterprise must be taught in scientific spirit».

3

Si veda Della Guerra (1832). Anche nel caso della strategia militare von Clausewitz riflette sulla sua duplice natura di «arte della guerra» e «scienza della guerra».

4

Il corso di «Business Policy» viene introdotto alla Harvard Business School a partire dal 1912. Cambierà la sua denominazione in «Competition and Strategy» nel 1986.

5

Si vedano M.T. Hannan, J. Freeman, «The Population Ecology of Organizations», American Journal of Sociology, 82(5), 1997, pp. 929-64; M.T. Hannan, J. Freeman, Organizational Ecology, Cambridge(MA)-London, Harvard University Press, 1993 (trad. it. Ecologia organizzativa, Milano, Etas, 1993).

6

Il concetto, riconducibile a Clayton Christensen e che trova ampia divulgazione nel suo libro The Innovator’s Dilemma (New York, HarperBusiness, 1997; trad. it. Il dilemma dell’innovatore, Milano, FrancoAngeli, 2001), è stato definito dall’Economist come una delle idee più influenti nel campo del management. Sullo sviluppo e sulla critica di tale concetto si vedano «When Giants Fail», The New Yorker, 14.5.2012, e «The Disruption Machine», The New Yorker, 23.6.2014.

7

Si veda C. Folke, «Resilience: The Emergence of a Perspective for Social-Ecological Systems Analyses», Global Environmental Change, 16(3), 2006, pp. 253-67.

8

Si veda W.C. Kim, R.A. Mauborgne, Blue Ocean Strategy, Boston (MA), Harvard Business Review Press, 2005 (trad. it. Strategia oceano blu, Milano, Etas, 2005).

9

Si veda E. Abrahamson, «Managerial Fads and Fashions: The Diffusion and Rejection of Innovations», Academy of Management Review, 16(3), 1991, pp. 586-612.

10

A questo riguardo si veda E.T. Penrose, «Biological Analogies in the Theory of the Firm», The American Economic Review, 42(5), 1952, pp. 804-19. Sul lavoro di Penrose si veda l’editoriale del numero precedente di Economia & Management (n. 2, 2018, pp. 2-4).