E&M
2015/4
Indice
Editoriale
Dossier: La riforma del lavoro
Il Jobs Act e l'evoluzione della disciplina dei licenziamenti in Italia
Il downsizing nelle imprese europee tra il 2002 e il 2014
La sicurezza dell’insicurezza: la nuova legge sul lavoro e gli impatti sul clima organizzativo
Capitale umano comunque al centro. Intervista ad Alessandro Mio e Umberto Panizzi
Moneta, finanza e regole
Manipolazioni finanziarie: a poco servono le multe miliardarie
Il Diversity Management
Il mercato del private equity e degli LBO
Imprenditori & imprese
Letti per me
Articoli
La crescita per acquisizioni aggregative
Principi contabili internazionali e società non quotate. Quali conseguenze sul costo del debito?
Fiducia o incentivi? Come vincere la sfida del privacy concern nell’e-commerce
Lunga vita ai classici
Un excursus che parte dai latini per concludersi con Conrad passando per Nietzsche, Manzoni e Max Weber. Strumenti preziosi per l’uomo e per la sua formazione.
Testo raccolto da Walter Mariotti
La lettura per me è stata una passione accecante, che ha preso la sua forma in età giovanile intorno alla filosofia e la storia. I Saggi di Montaigne, per esempio, sono stati una vera svolta esistenziale, a cui torno spesso: li considero uno dei vertici assoluti della letteratura di ogni tempo, profondi e analitici come forse nessun altro. Montaigne è un filosofo non sistematico, uno scrittore straordinario, un personaggio del suo tempo ma anche d’impressionante vicinanza, sospeso tra fermezza e relativismo, che continua a leggere la realtà con distacco e forza non comuni. Proprio come Tucidide ne La guerra del Peloponneso, che ho amato fin dagli anni del liceo non per velleità guerresche ma per la capacità rara di analisi delle dinamiche del potere e del comportamento umano di venticinque secoli fa come di oggi. Molto più di Polibio e di Erodoto, grandi narratori descrittivi e intuitivi ma privi della profondità, dello studio delle passioni, dell’intelligenza dell’agire umano che caratterizzano Tucidide.
Fra i classici, un posto particolare per me lo guadagnano Tacito e Livio, scrittori diversissimi ma accomunati dalla capacità di andare oltre la storia e i movimenti, i fatti e i dettagli rigorosi, mettendo in scena veri e propri trattati dell’animo umano, strumenti preziosi per qualunque uomo prima che manager. Proprio come Il mondo di Arthur Schopenhauer e tutta l’opera di Friedrich Nietzsche, niente escluso. Farei fatica a pensare una formazione, manageriale più che adolescenziale, che non si sia confrontata con la loro violenta precisione a comprendere il tempo che viviamo, le sue contraddizioni, le sfide che siamo chiamati a sostenere come protagonisti, volenti ma soprattutto nolenti, della società a cui apparteniamo. Tutto il contrario del cosiddetto materialismo dialettico, che pur ho letto ma che non mi pare valga una pagina degli Scritti economici di David Hume – anche se mi rendo conto che non è molto politicamente corretto.
D’altra parte, cambiando categoria e passando alla letteratura, il mio libro preferito è senza dubbio I promessi sposi, che come capì lo stesso Carlo Fruttero, sebbene solo in età molto matura, resta di portata eccezionale e di livello europeo, che dopo secoli di involuzione riportano l’Italia della prima metà dell’Ottocento ai vertici della letteratura alla pari di Francia, Inghilterra e Russia. Decisamente, ritengo Manzoni cruciale sia come narratore che come storico e psicologo, basti pensare all’anatomia del coraggio e della vendetta, all’anamnesi del dubbio o anche al determinismo geometrico della sventura, cristallizzato nella figura di Gertrude. Un grande romanzo I promessi sposi, completo e circolare, che se la gioca con Guerra e Pace di Lev Tolstoj e I Demoni di Fedor Dostoevsky, che pure ho molto amato.
L’Ottocento italiano per me resta contemporaneo anche per un altro irraggiungibile, il triste e sommo poeta Giacomo Leopardi, come si torna a dire dopo il film di Mario Martone. Modestamente aggiungerei sommo saggista. Ritengo le Operette morali un capolavoro, di cui un solo paragrafo è in grado di rovesciare lo sguardo illuminista sull’ordine dell’assoluto di cui è prodigo Immanuel Kant, che per me rappresenta, nelle tre Critiche, una stella fissa.
Venendo alle letture più specifiche, o per così dire professionali, credo che il posto sul podio lo tengano in una scala inversamente proporzionale alla conoscenza Henry Mintzberg e Hal Variant. A dispetto degli anni, La progettazione dell’organizzazione aziendale di Mintzberg resta un saggio capitale per chiunque voglia avventurarsi nelle strutture produttive della postmodernità, un testo che fa il pari per motivi diversi con Microeconomia di Variant e, secondo me, anche Macroeconomia di Dornbush Fisher. Più che testi opere circolari, complete e aperte, dunque ingiustamente relegate in una visione troppo stretta, accademica e meccanicistica.
Certo, negli anni ho trovato molti autori intellettualmente provocanti: Joseph Schumpeter e il suo paradigma che oggi va tanto di moda, per esempio, è singolare ma forse ormai superato dagli eventi. Anche Peter Ferdinand Drucker è notevole, strano mix di manager e teorico che potrei definire “l’intellettuale del business”: una lettura che consiglio a tutti gli uomini delle corporation. Da questo punto di vista, però, francamente continuo a non comprendere perché si parli sempre meno di Max Weber, filosofo vertiginoso, compreso il piano letterario, che resta illuminante per qualunque manager. Soprattutto quando si arrivi al punto vero, l’essenza della produzione e del valore, il senso dell’agire che – direi nietzschianamente – deve essere condiviso da un intento perché non è dato in natura.
A questo punto sembrerò esterofilo, ma non lo sono. Nella mia dieta editoriale molti piatti sono italiani. Avendo avuto la fortuna di studiare con allievi di Carlo Maria Cipolla mi resta la pregiudiziale dei suoi testi, unici in grado di offrire chiavi rigorose e divertenti della genesi dell’Europa preindustriale che continuiamo a scontare nella società attuale. Non solo. Nato e cresciuto a Ivrea, e formato per molti versi alla sua mistica industriale, non potrei concludere questo percorso senza citare Adriano Olivetti, caso unico nel panorama culturale del Novecento europeo ma anche figure nazionale dal profilo non classificabile. Non a caso fu Olivetti a voler tradurre per primo Michael Porter, la cui forza interpretativa e predittiva mi pare a volte balenare solo nelle pagine di Geremy Rifkin, di cui non ho perso un libro.
Concludo su un punto che mi pare obbligatorio, l’idea di leadership e soprattutto di tenuta della leadership. Sinceramente, dopo anni di studi, lavoro e ricerca “sul campo”, sono sempre più convinto che nessun testo superi La linea d’ombra di Joseph Conrad. Più che un romanzo di formazione un vero manuale d’istruzioni di secondo livello, per iniziati, obbligatorio quindi per chiunque sia chiamato a gestire il destino altrui. Cercando di guadagnarsi il proprio.