E&M
1999/1
Indice
Il Convegno di "Economia & Management"
Interventi
La dimensione emozionale dello shopping. Una ricerca esplorativa sul ruolo del punto di vendita
Interventi
Rilanciare Pompei: anno zero. Le attese verso approcci manageriali e forme moderne di accountability
Interventi
Il percorso futuro delle privatizzazioni. Il ruolo del Ministero del Tesoro
Internet banking. Dalla strategia multicanale alla ridefinizione della value proposition in banca
Il gatto e la magnolia. Due esempi di flessibilità nel cartone animato
Scarica articolo in PDFLa gabbianella e il gatto
di Enzo D’Alò
Cartoni animati, Italia, 1998
Mulan
di Barry Cook e Tony Bancroft
Cartoni animati, USA, 1998
Gatti che si mettono a covare un uovo e uccelli che miagolano e zampettano come felini. Oppure ragazzine adolescenti che si armano e combattono come se fossero eroici samurai.
Da qualche tempo a questa parte il mondo dei cartoons pare dominato dall’idea del crossing: scambi di ruoli, sperimentazioni performative e incroci prestazionali non si contano, all’insegna di una flessibilità talmente spinta e pervasiva da sfiorare i confini del paradosso.
In La gabbiallella e il gatto di Enzo D’Alò, ad esempio, si narra di come la gabbianella Zengah, avvelenata da una macchia di petrolio, finisca per deporre il suo ultimo uovo di fronte all’indolente gatto Zorba. In punto di morte, Zengah riesce a strappare a Zorba tre promesse: che non mangerà l’uovo. che ne avrà cura finché non si schiuderà e che insegnerà a volare alla piccola gabbia nella che sta per nascere.
Liberamente tratto da una tavola dello scrittore cileno Luis Sepulveda. il film racconta appunto di come il gatto si trovi impegnato a compiere prestazioni che in apparenza contrastano con la sua stessa natura: prima deve inventarsi un modo per covare l’uovo, poi una volta nata la piccola Fortunata – deve imparare in fretta a nutrirla (capendo ad esempio che i cibi per gatti non sono graditi ai gabbiani, e che un po’ di mosche o di insetti servono molto meglio allo scopo), infine deve far accettare l’“intrusa” alla comunità dei gatti del porto, che sulle prime guardano con sospetto quella creatura appartenente a una specie diversa che all’improvviso ruzzola tra le loro zampe e si mette a chiamare “mamma” un membro maschio della loro onorata società. Potenza del cartone animato.
Come nelle antiche favole di Esopo, Fedro e La Fontaine, anche gli animali del film di Enzo D’Alò assomigliano agli uomini. Ma la somiglianza scatta su un piano diverso rispetto a quei processi di “antropomorfizzazione della bestia” che da mezzo secolo in qua hanno fatto la fortuna del modello Disney o – più in generale – del cinema d’animazione hollywoodiano.
I gatti di Sepulveda e D’Alò, ad esempio, non hanno nulla a che tare con Felix, Gatto Silvestro o gli stessi Aristogatti. Se non altro perché non indossano il cravattino, non leggono il giornale e non bevono il caffè.
Tutta la strategia di antropomorfizzazione coatta che ha segnato il trattamento disneyano della figura animale viene eliminata in un sol colpo. Gli animali di D’Alò sono fisicamente zoomorfi: camminano a quattro zampe, non assumono posture e non fanno movimenti inverosimili, non scimmiottano il comportamento umano. L’azzeramento dell’antropomorfismo fisico e gestuale si accompagna però a un’accentuazione inversamente proporzionale dell’antropomorfismo dei sentimenti e delle percezioni: quanto più gli animali del film sono diversi da noi, tanto più ci assomigliano sul piano del sentire. E addirittura ci anticipano nella straordinaria naturalezza con cui praticano il morphing prestazionale: chiunque può fare qualunque cosa.
Può assumere qualsiasi ruolo. Può imparare in fretta a compiere azioni o a svolgere prestazioni che solo la vecchia logica conservativa dei “mansionari” o delle “inclinazioni naturali” pretendeva di poter perimetrare e definire a priori con criteri di forte rigidità distributiva.
Ora il mondo del cartoon ci ricorda che le cose non stanno più così. O che non stanno necessariamente così.
Qualche anno fa un film come Babe maialino coraggioso (1995) di Chris Noonan ci aveva ricordato che anche un maiale può svolgere le funzioni di un cane da pastore e che può anzi guidare un gregge con più efficacia e sensibilità di quanto non lo faccia un cane, ormai adagiato in una logica di prestazioni consuetudinarie e ripetiti ve. Ora La gabbianella e il gatto si spinge anche più in là e ci fornisce non solo un toccante apologo sulla tolleranza e sull’ accettazione del diverso. ma anche una dimostrazione lampante di come ormai chiunque possa e debba imparare a farsi diverso. e a sperimentare ruoli. gesti e prestazioni differenti da quelli a cui è abituato e che crede gli competano per “inclinazione” naturale.
In sintonia con la richiesta di prestazioni sempre più flessibili che viene dal mercato del lavoro globalizzato, un film come La gabbianella e il gatto dimostra cioè che l’identità è una questione di cultura più che di natura. E che la disponibilità a confrontarsi con compiti e mansioni diversi da quelli tradizionalmente acquisiti non costituisce un impoverimento bensì un arricchimento della personalità. Come capita al gatto Zorba: che dopo aver imparato a comportarsi come un gabbiano, diventa il primo esponente del popolo dei gatti che può sperimentare l’ebbrezza del volo.
E la Disney? Che ne pensa la casa di produzione dell’inventore di Topolino?
Il suo più recente lungometraggio d’animazione (Mulan, diretto da Barry Cook e Tony Bancroft) va sorprendentemente in una direzione analoga.
Ispirato a un’antica leggenda cinese, Mulan celebra infatti le gesta di una giovane eroina rurale che, per risparmiare al padre vecchio e malato la fatica di una nuova guerra, abbandona il kimono e i fiori di loto, indossa l’armatura, si arruola nell’esercito imperiale e va a combattere al posto dell’ anziano genitore contro l’armata degli Unni che sta invadendo la Cina. Come il gatto Zorba o la gabbianella Zengah, anche Mulan (che in cinese significa “magnolia”) si fa forte delle sue debolezze. Si traveste, sfida l’impossibile con una scelta apparentemente estrema e alla fine vince. Più che a una Giovanna d’Arco dell’Estremo Oriente, assomiglia a certe eroine del cinema contemporaneo che si sentono vive solo nella misura in cui riescono a rompere i ruoli precostituiti e a costruire una nuova identità fondata sulle scelte personali e conquistata sul campo con la forza e con l’evidenza delle azioni.
Forse personaggi come lei o come Zorba non rispecchiano la realtà. Di certo però esprimono un bisogno. E prefigurano un modo d’essere che sempre più, quasi necessariamente, ci riguarda.