E&M

2003/3

Gianni Canova Severino Salvemini

Colletti bianchi: dal mestiere tecnico al mestiere sociale

A proposito di Schmidt di Alexander Payne, interpretato da uno strepitoso Jack Nicholson, mette a fuoco il dramma di un dirigente nel momento in cui lascia il lavoro per andare in pensione. Nello stesso tempo fa intravvedere un mutamento epocale nell’approccio alla professione.

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A proposito di Schmidt

Regia Alexander Payne

Interpreti Jack Nicholson, Kathy Bates

USA, 2003

La macchina da presa inquadra dal basso l’imponente architettura marmorea del grattacielo di Omaha, nel Nebraska, in cui ha sede la compagnia di assicurazioni Woodmen. Stacco. All’interno, in una stanza anonima e disadorna, un uomo sprofondato in una sedia osserva con volto attonito gli scatti delle lancette di un orologio da muro. Mancano pochi secondi alle 17.00. Tic tac, tic tac. Il tempo scorre inesorabile, l’obiettivo della macchina da presa stringe impietoso sul dettaglio delle lancette. Scoccano le 17.00 in punto. L’uomo si alza desolato, afferra la borsa da lavoro pronta sul tavolo, passa per l’ultima volta la mano sulla scrivania come per ripulire eventuali granelli di polvere, quindi esce dalla stanza e chiude la porta dietro di sé. Il signor Warren Schmidt va in pensione. Lascia libero l’ufficio. Chiude definitivamente con la vita che ha fatto fino a quel giorno. Dovrebbe essere felice, ma non lo è. Si sente vuoto, e vede il vuoto davanti a sé. Per gli altri è un vecchio, ma lui non si sente tale. Anzi, fatica a riconoscersi nell’immagine che gli altri hanno di lui. Lo dice egli stesso poco dopo, in un monologo recitato in voce off : “Quando vedo le rughe che ho intorno agli occhi, la pelle che pende sotto il mento, i peli nelle orecchie e i capillari che si spaccano sulle caviglie, non riesco a credere che quello sono io”.

Warren Schmidt è il prototipo dell’uomo medio americano. È talmente medio che il suo nome – appena appena storpiato o modificato nella grafia – appare più volte, riferito ad altri, nel corso del film: c’è il nome di uno Schmidt sul cartellone di un cinema, all’aeroporto di Omaha un negozio porta l’insegna W. Smith e perfino su una fotografia c’è il ritratto di uno Schmidt che non è lui. Vero emblema dell’uomo massa, simile a tanti altri e perciò stesso privo di un’identità fortemente caratterizzata, sconta la perdita del lavoro come una catastrofe che gli sottrae quel poco di residua identità che l’inserimento nel sistema produttivo gli consentiva di illudersi di avere. È sposato, Warren Schmidt. Lo è da più di quarant’anni. Ma la lunga convivenza ha sclerotizzato il rapporto con la moglie e l’ha svuotato di ogni stimolo. Tanto che Warren non sopporta più le piccole manie affettuose della consorte e spesso si sveglia in piena notte chiedendosi: “Chi è questa vecchia che dorme nel mio letto?”. La moglie, però, se ne andrà presto, stroncata da un ictus (in una scena ammirevole per pudore e sobrietà), e Warren resterà completamente solo. Solo, e con la necessità di dare un senso al tempo che gli resta da vivere. 

Diretto con acida eleganza dal regista Alexander Payne, A proposito di Schmidt mette a fuoco con grande realismo il tema della crisi di identità che spesso si manifesta – per molti quadri e dirigenti – proprio nel momento in cui devono lasciare il lavoro per andare in pensione. Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.

S.S. Trovo che l’incipit valga tutto il film. Quei pochi minuti ambientati in un ufficio spoglio, con i materiali prodotti in quarant’anni di lavoro già riposti nelle casse che poi verranno abbandonate in un sottoscala, quella sorta di countdown che scandisce gli ultimi istanti della vita lavorativa di un classico “colletto bianco” americano, che aspetta le 17.00 in punto per uscire dall’ufficio e non tornarci più, ecco mi sembra che quei pochi minuti di cinema esprimano in una sintesi mirabile il dramma che sempre si consuma nella vita professionale e umana di tanti dirigenti nel momento in cui sono costretti al “rito di passaggio” che consiste nel dover abbandonare il proprio posto di lavoro…

G.C. In  effetti questa sequenza ha un tasso di rappresentatività simbolica e sociologica molto alto. Esprime un modello di organizzazione del lavoro molto rigido soprattutto nell’articolazione del rapporto con il tempo e con lo spazio. Lo spazio è gerarchizzato (un grattacielo in cui si sale di piano a mano a mano che si ascende nella gerarchia aziendale) e delimitato dalla posizione di chi lo occupa, il tempo è una sorta di mannaia che segmenta la vita in tagli netti, dividendo spietatamente il tempo di lavoro dal tempo di “non lavoro”. Il protagonista del film, per certi versi, desidera uscire da questo meccanismo, ma teme quel che verrà dopo. Non sa come potrà essere la vita senza l’ordine coercitivo imposto ma anche garantito da quell’organizzazione del lavoro.

S.S. Da questo punto di vista trovo molto interessante la sequenza del party che l’azienda organizza per salutare l’anziano collega che se ne va e per accogliere il nuovo dirigente che prenderà il suo posto. Il nuovo arrivato, con una classica formula di cortesia, invita il neopensionato a passare in azienda quando vuole, lo illude di poter avere ancora bisogno di lui. È, appunto, un invito di cortesia, ma il personaggio interpretato da Jack Nicholson lo prende per un invito vero, e si presenta in azienda per illustrare al suo sostituto la sua metodologia di lavoro. Quest’ultimo lo ascolta distrattamente, non ha il minimo interesse per quel che gli viene detto e si sbarazza del vecchio il più in fretta possibile, convinto che gli faccia solo perdere tempo.

G.C. In questa scena, peraltro, si delinea anche una sorta di scontro fra due diverse metodologie di lavoro…

S.S. Senz’altro. Il dirigente che va in pensione lascia dietro di sé un approccio al lavoro che aveva come contenuti intrinseci la specializzazione e la tecnicità, il giovane che lo sostituisce considera invece cruciali e primarie le relazioni. È un “animale sociale” che tiene in poco conto l’aspetto matematico-attuariale su cui il personaggio interpretato da Jack Nicholson aveva invece impostato tutto il suo lavoro di assicuratore.

G.C. Questo differente approccio si riflette anche nel diverso modo in cui i due dirigenti organizzano il loro ufficio: Schmidt lavorava in un ufficio spoglio e isolato, immerso nei suoi algoritmi e nei suoi calcoli matematici, mentre il nuovo dirigente crea attorno a sé uno spazio più allegro e solare, più idoneo a essere percepito come luogo di relazioni.

S.S. Non solo: il personaggio di Schmidt incarna molto bene l’idea del mestiere che ha caratterizzato un po’ tutta la sua generazione. Per lui l’assicurazione è una sorta di  istituto autoreferenziale che si basa sulla potenza e la perfezione del calcolo statistico-matematico. Lo dice anche, in una delle lettere che scrive al bimbo africano che adotta a distanza per lenire la propria solitudine: se di una persona gli vengono date tre o quattro variabili (il sesso, l’esistenza di malattie congenite, il campo di attività, l’area geografica di residenza) è in grado di prevedere con discreta esattezza quando morirà. Chi prende il suo posto non ha più questa fiducia nella “tecnicità” del mestiere ed è convinto che per fare business sia necessario uscire dall’ufficio e andare a cercare i clienti nella società. Il film racconta, insomma, anche la perdita e la progressiva decadenza del mestiere tecnico rispetto all’avanzata del cosiddetto mestiere sociale.

G.C. E per quanto riguarda la crisi di identità connessa con il termine dell’attività lavorativa? È solo un cliché letterario o trova riscontri nella realtà della vita delle singole persone e delle organizzazioni?

S.S. Direi che non è affatto un cliché, né un luogo comune, e che rispecchia, anzi, uno dei problemi irrisolti delle organizzazioni contemporanee, e forse della società attuale tout court. Di fatto, non siamo ancora riusciti a inventare un modo efficace per affrontare il tema dell’identità e del ruolo di coloro che escono dal circuito produttivo. È drammatico, ma è così: la moderna società occidentale non sa ancora cosa offrire ai suoi membri per impiegare in modo decoroso, soddisfacente e proficuo gli ultimi anni di vita.