E&M

2015/2

Gianni Canova Severino Salvemini

Big Eyes. Marketing, creatività e menzogna

Ispirandosi alla storia vera di Margaret Keane, il nuovo film di Tim Burton ( Edward mani-di-forbice , La fabbrica di cioccolato ) racconta la caduta della distinzione fra arte e merce e si interroga sul valore “creativo” e sulle implicazioni etiche del marketing. Strategia del desiderio o tattica della falsificazione?

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Big Eyes

Regia: Tim Burton

Interpreti: Amy Adams,

Christoph Waltz

USA, 2014

 

È intraprendente, sfacciato, carismatico: uno di quegli uomini che non sembrano sfiorati dal dubbio e che ti trasmettono solo certezze. Lei, invece, di dubbi ne ha da vendere: è una pittrice di talento, ma non è consapevole del proprio valore. E poi ha appena piantato un marito insopportabile nell’America puritana degli anni cinquanta, ha una figlia da crescere, non sa come campare e racimola a fatica qualche dollaro facendo ritratti per la strada. Quell’uomo la affascina: dice di essere un agente immobiliare, di aver studiato a Parigi e si vanta di essere a sua volta un pittore. L’amore sboccia quasi subito, il matrimonio arriva poco dopo. E non ci vuole molto perché l’unione si trasformi in un vero e proprio sodalizio “imprenditoriale”: lei dipinge bambini derelitti con grandi occhioni teneri e toccanti, sproporzionati rispetto alle dimensioni della testa e del corpo.

Lui intuisce che quei quadri al pubblico possono piacere e, dal momento che la moglie li firma solo con il cognome acquisito, cioè il suo, comincia a spacciare quei quadri per suoi e prova a venderli in modo sistematico. Con metodo, con creatività, quasi inventando una forma pionieristica di marketing. E lei accetta, perché lui ci sa fare, e sa come trasformare i suoi quadri in una montagna di dollari. Big Eyes di Tim Burton – ispirato alla storia vera della pittrice Margaret Keane – non racconta solo una delle più colossali truffe artistiche del Novecento, ma delinea anche – con lungimiranza e intelligenza – la nascita del marketing dell’arte. È più importante creare o saper vendere ciò che hai creato? Con i suoi colori pastello e le sue luci solari, Big Eyes è uno dei film più teorici che mai siano stati realizzati sul rapporto fra imprenditorialità e creatività e offre molti spunti alla riflessione. Ne discutono Gianni Canova e Severino Salvemini.

 

G.C. Il personaggio di Walter Keane (Christoph Waltz) è stato giudicato molto negativamente sia dal pubblico sia dalla critica. Io lo trovo invece molto interessante: in fondo, anche storicamente, Keane muta lo statuto dell’arte, traghettandola nell’epoca dei consumi di massa…

 

S.S. Il mondo dell’arte è sempre stato notoriamente diffidente rispetto alle prospettive della riproducibilità e della serializzazione. Ha sempre difeso l’idea del prototipo, dell’opera unica, e Keane va contro tutto questo…

 

G.C. La difesa della “prototipicità” dell’opera d’arte è più un residuo ideologico tardo romantico che una prassi condivisa. Nella modernità – ce l’ha insegnato Walter Benjamin – l’opera d’arte è tecnicamente riproducibile, perde la sua aura di unicità, ma diventa finalmente accessibile al grande pubblico. Solo le anime belle possono attardarsi nella difesa di un’arte unica e d’élite. E tuttavia anche le reazioni di tanti spettatori di fronte al film di Burton ci dicono come l’idea di “mercato dell’arte” dia ancora fastidio. Non trovi che il personaggio di Walter Keane sia, in fondo, l’inventore di quello che potremmo definire il “marketing dell’arte”? È lui il primo, per esempio, che stampa e vende riproduzioni delle opere. Nessuno l’aveva fatto prima di lui.

 

S.S. Non solo. Margaret non è in grado di affrontare il mercato, non è preparata, non sa come persuadere i clienti della sua specificità innovativa. In un certo senso, la sua motivazione si esaurisce nella produzione della tela, all’interno del suo laboratorio abbastanza isolato e oscuro. Dipinge sulla base del principio “art for art’s sake”. Walter invece, dopo essere passato da mille lavori (agente immobiliare, truffatore, wannabe artist a tutti i costi), è un vero e proprio stratega del marketing: è un genio della vendita e della promozione, crede nella serializzazione delle creature dagli occhi grandi, sa che non bisogna modificare troppo la formula iniziale della raffigurazione, perché i clienti vogliono la ripetitività della formula originale. E poi lancia nel mondo dell’arte i poster, le tazze, il merchandising e abilmente si relaziona con i media, la televisione, il grande pubblico.

 

G.C. In questo sta la sua “genialità”: lui è il primo che non solo vende i quadri, ma anche le foto dei quadri, e poi le cartoline delle foto dei quadri. Senza di lui, che destino avrebbero avuto i quadri di sua moglie? Quando qualcuno lo accosta a Warhol, lui replica: “È lui che ha copiato me. Io avevo una factory quando ancora lui non sapeva neanche cosa fosse un barattolo di zuppa!”.

 

S.S. In un certo senso, si può dire che Keane sia un precursore della pop art. Non a caso, nei titoli di testa di Big Eyes è citato proprio Warhol e il suo aforisma secondo cui, se una cosa piace tanto alla gente, vuol dire che un valore artistico ci deve essere. Ciò che piace – avrebbe detto Warhol – non può essere brutto: Keane lo pensa e lo mette in pratica dieci anni prima.

 

G.C. C’è una sequenza che mostra molto bene la densità teorica del film e la sua lucida difesa dell’idea di arte come merce: è quella del supermercato in cui le riproduzioni dei quadri con i “big eyes” fronteggiano banconi zeppi di ordinate scatole di merci, a loro volta del tutto identiche ai Brillo Boxes o alle Campbell’s Soups warholiane. Il film mette in scena la caduta della distinzione fra arte e merce. E rivendica valore estetico, oltre che economico, a ciò che piace al grande pubblico. È un portato della modernità che tanti nostri aristocratici intellettuali, snobistici ed elitari, non hanno ancora digerito.

 

S.S. C’è però un problemino. Keane è un bugiardo. Un truffatore. Diventa agente di Margaret, e la rende ricca, ma defraudandola dei suoi “diritti di proprietà”. Non esita a costruire una truffa in nome dei benefici economici che ne può ricavare.

 

G.C. È vero. Ma da un certo punto di vista Keane è il classico personaggio burtoniano che – come l’Edward Bloom di Big Fish – plasma la realtà a uso dei suoi sogni. Poi è un bugiardo, certo. Ma alla fine paga per la piega fraudolenta che ha dato alla sua creatività manageriale.

 

S.S. Va anche detto che Margaret non ha la forza di opporsi al plagio che Walter opera nei suoi confronti. D’altra parte, Walter la stordisce con le sue ambivalenze: è bastardo ma cangiante, è narciso ma generoso, è traditore ma chioccia, è aggressore ma garante dello schema patriarcale vigente all’epoca. E Margaret riesce a ribellarsi e a fare outing solo quando la misura davvero diventa colma.

 

G.C. Resta il dubbio di fondo. Senza Walter, Margaret sarebbe diventata quel che è diventata? Siamo così sicuri che il saper vendere, cioè il saper fare desiderare alla gente ciò che tu vuoi, sia meno creativo e meno nobile del saper dipingere? Credo che questo sia uno dei grandi interrogativi del nostro tempo che il film di Tim Burton mette a fuoco con stimolante lucidità.