E&M

2015/2

Stefano Gatti

L’ambizione senza radici del piano infrastrutturale

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Il tema dell’investimento in infrastrutture è da qualche tempo al centro di un dibattito che coinvolge autorità di regolamentazione, operatori industriali, investitori finanziari.

A fronte di un fabbisogno di infrastrutture stimato per l’Unione Europea in circa 2.000 miliardi di euro fino al 2020 e considerando i rigidi limiti imposti dal patto per la stabilità e il fiscal compact negli anni a venire, la ricerca di capitale privato per sopperire alla riduzione di investimenti pubblici in questa tipologia di interventi diviene essenziale.

L’essenzialità deriva anche dal fatto che le infrastrutture sono uno dei fattori che possono contribuire, in un confronto internazionale, a un aumento della produttività dei fattori produttivi. Esse contribuiscono quindi a creare vantaggi competitivi nei confronti di altre economie esterne. Da questo punto di vista, lo stesso fabbisogno di infrastrutture stimato per i paesi BRIC, sempre entro il 2020, è stimato in circa 12.000 miliardi di euro, a fronte tuttavia di rapporti tra debito pubblico e PIL sensibilmente inferiori a quanto registrato nei paesi dell’Unione Europea. È come dire che, a fronte di un maggiore fabbisogno, vi è anche un significativo margine di manovra delle finanze pubbliche in grado di colmare più rapidamente il funding gap e di conquistare maggiori livelli di competitività relativa.

L’attrazione di capitale privato verso questa asset class può contare su alcuni caratteri distintivi delle infrastrutture difficilmente rinvenibili in investimenti più tradizionali in azioni o bond: settori regolamentati, alte barriere all’ingresso, strutture di mercato di monopolio o quasi monopolio, bassa elasticità della domanda sono tutti fattori che contribuiscono a una ridotta volatilità dei flussi di cassa prodotti dall’investimento su un arco temporale medio-lungo. Si tratta di un profilo gradito a long term investors come i fondi pensione o le compagnie di assicurazione vita che, non stupisce, hanno iniziato a convogliare su questa classe di attività maggiori risorse finanziarie rispetto a quanto accadeva solo a metà degli anni 2000, tanto da portare alcuni analisti a parlare di un fenomeno di disintermediazione del più tradizionale circuito creditizio fondato sui prestiti sindacati organizzati nella forma del project financing.

Se, da un lato, le infrastrutture possono quindi qualificarsi come alternative asset class al pari di altri investimenti alternativi come il real estate, gli hedge funds, le commodities o il private equity, dall’altro l’attrazione di capitale privato presuppone un atteggiamento proattivo da parte del settore pubblico e un orientamento imprenditoriale che eviti di considerare il capitale privato come una facile scorciatoia per superare il problema di bilanci pubblici non sufficientemente capienti.

Tale atteggiamento può fondarsi sia sulla creazione di una classe di amministratori pubblici tecnicamente preparati ad affrontare la negoziazione con il settore privato sulla base di profili rischio/rendimento accettabili dal privato stesso, sia sulla messa a disposizione di forme di back-up finanziario in grado di migliorare lo stesso profilo nel caso in cui l’opera infrastrutturale non sia di per sé in grado di essere appetibile per investitori privati.

Le diverse forme di credit enhancement elaborate dalla Commissione Europea, dapprima attraverso il 2020 Project Bond Initiative e più recentemente attraverso la proposta del presidente Juncker del EFSI (European Fund for Strategic Investment), vanno nella direzione di migliorare o il rendimento o il rischio dell’operazione a favore dei finanziatori privati. Si può trattare di interventi tecnicamente definibili funded (come nel caso della tranche di debito subordinato messa a disposizione della BEI nella 2020 Project Bond Initiative fino a un massimo del 20% del debito senior) o, in alternativa, di linee di credito fuori bilancio (c.d. unfunded) in grado di essere attivate in caso di emersione di perdite inattese rispetto ai preventivi al fine di limitare il tasso di perdita per il settore privato. Lo EFSI proposto da Juncker ricade in questa seconda categoria.

Per quanto i dettagli tecnici non siano ancora stati completamente definiti, l’idea di fondo della Commissione Europea sarebbe quella di dirottare fondi già disponibili nella misura di 21 miliardi di euro (16 provenienti dai programmi europei “Connecting Europe” e “Horizon 2020” e il resto finanziato da BEI) per creare una first loss guarantee nei confronti di progetti strategici nel settore delle infrastrutture. La copertura della prima porzione di perdite – non è ancora chiaro se attraverso una tranche di debito subordinato o attraverso una iniezione di equity – dovrebbe consentire di attrarre capitale privato in grado di finanziare un importo di progetti pari a circa 315 miliardi. Si parla quindi di una leva implicita di 15x.

L’accoglienza da parte del settore privato della proposta Juncker è stata tiepida. Si può cercare, con un semplice esercizio, di capire il perché di tale reazione, soprattutto in un momento come questo in cui il rilancio della crescita macroeconomica potrebbe trarre vantaggio da un massiccio piano di investimenti infrastrutturali.

Moody’s ha recentemente stimato che il tasso di default cumulativo a dieci anni dei prestiti nella forma di project finance è di circa 11,5%. La stessa agenzia di rating ha calcolato che, in caso di default, il tasso di recupero per i creditori è stato pari al 76,4% implicando una perdita in caso di default pari al 23,6%. I due dati contribuiscono a indicare una perdita attesa di circa il 2,7%. Se consideriamo tale perdita come un base scenario e sottoponiamo tale perdita a uno stress test tale da innalzare la qualità creditizia del finanziamento erogato, i dati proposti da Juncker presupporrebbero un tasso di perdita stressed del 6,66% che, se verificato, eroderebbe completamente la first loss guarantee. In termini di moltiplicatore di stress stiamo parlando di 2,5x la perdita attesa nel base scenario.

Tenuto conto che un certo interesse da parte degli investitori privati può essere raggiunto solo con un meccanismo di credit enhancement tale da portare il rating del debito verso la regione BBB-/A-, pare difficile pensare che uno stress multiplier di 2,5x (se si preferisce, una leva di 15x) sia compatibile con un profilo rischio/rendimento accettabile da parte del settore privato.

È come dire, per concludere, che o si mettono più denari pubblici (con il rischio peraltro di generare nel settore privato fenomeni di azzardo morale dovuto all’esistenza di un back-up di garanzia anche in presenza di offerte in gara non ispirate a una chiara identificazione e gestione dei rischi propri del settore privato) o ci si deve accontentare di un ammontare di progetti finanziabili meno ambizioso.

Il dossier di questo numero comprende un contributo di Stefano Gatti e Veronica Vecchi su Il PPP e l’attrazione dei capitali privati. Quali condizioni per colmare il funding gap?, uno sguardo ai Nuovi assetti proprietari delle reti di trasporto energia in Europa di Matteo Di Castelnuovo e Caterina Miriello, che ne esplorano anche i riflessi sulla propensione a investire, e infine, un’intervista a Raffaele Della Croce, che del ruolo degli investitori istituzionali nel settore delle infrastrutture si è occupato per conto dell’OCSE.