E&M
2008/6
Indice
Editoriale
Focus intervista
Doing business in China
Investimenti diretti esteri nelle industrie high-tech e avanzamento tecnologico in Cina
Il mercato delle regole
Fuoricampo
Articoli
Posizionarsi nella rete delle alleanze strategiche per generare innovazione
Globalizzazione dei brand portfolio: le strategie vincenti
La gestione delle politiche pubbliche a sostegno delle biotecnologie: il caso tedesco
Storie di straordinaria imprenditorialità
Storia minima di un’impresa, di una famiglia e di quattro generazioni
Fotogrammi
Chi protegge l’innovazione?
Scarica articolo in PDFL’investimento richiesto dalla creazione di nuovi prodotti e servizi necessita di un incentivo economico per far fronte al rischio di insuccesso che strutturalmente è contenuto in ogni innovazione. Naturalmente investimento e rischio sono proporzionali al grado di novità che l’innovazione porta con sé. Un conto è lanciare l’ennesima versione di iPod, quale per esempio il mini iPod o il nano iPod (innovazione incrementale), un altro è risegmentare il mercato con un prodotto come iPod Shuffle, che taglia il prezzo di mercato sotto le tre cifre e si propone a segmenti che non possono accedere al prodotto originario (innovazione di mercato). Altro conto ancora è lanciare iPod in prima battuta e cambiare le regole del gioco nel settore dell’elettronica di consumo o addirittura lanciare iPhone e far convergere la portabilità della musica con la telefonia (innovazione radicale). Per favorire lo stimolo alla creazione di innovazioni – tema su cui non ci soffermiamo, ma che difficilmente può essere messo in discussione in un paese che si definisca economicamente moderno – è quindi fondamentale la presenza di incentivi all’innovazione che proteggano le innovazioni in generale, e che proteggano soprattutto le innovazioni radicali.
Brevetti e diritti d’autore (i copyright) da sempre presentano questa finalità e assolvono a questa fondamentale funzione. Essi forniscono un incentivo all’innovatore, consentendo di ottenere e beneficiare di quella che tra gli addetti ai lavori si definisce rendita schumpeteriana, dal nome dello studioso che più di altri, un secolo fa, si soffermò sull’importanza dell’innovazione nei sistemi economici. Grazie alla presenza di brevetti e copyright chi innova può godere di un “micro” monopolio, spesso limitato temporalmente, sull’innovazione che è stata introdotta. Dalla band che con un album crea un nuovo genere musicale, al designer che crea un nuovo stile di abbigliamento, al ricercatore che crea un articolo scientifico che profuma di premio Nobel, fino a giungere all’impresa biotecnologica che sviluppa una nuova entità molecolare, l’impiego di brevetti e copyright concede il diritto a legare il nome dell’inventore all’innovazione e, conseguentemente, a beneficiare dell’eventuale ritorno economico da essa prodotto e ad entrare nella storia grazie agli effetti di reputazione che permette di conseguire.
Ma cosa succede quando brevetti e copyright non funzionano? Chi protegge l’innovazione in queste circostanze? La domanda non è pleonastica, ma sta diventando un’eventualità sempre più diffusa a causa di tre fenomeni irreversibili: la globalizzazione dei mercati; la velocità con cui si muovono le tecnologie e i settori; e la crescente componente di servizio e di intangible che caratterizza l’innovazione nella gran parte delle industrie moderne.
Si pensi anzitutto alla globalizzazione dei mercati. Durante un viaggio a Shanghai nel 2005, finalizzato a identificare la location ideale per l’apertura di un nuovo outlet village, il proprietario di Studio Tarchini, fondatore della celebre catena Fox Town, chiese basito al taxista con cui stava viaggiando assieme all’agente immobiliare locale di fermarsi di fronte a un centro commerciale che riportava l’insegna Fox Town; non solo era identico il trademark della sua azienda, ma anche il lay-out della “copia” cinese sembrava richiamare quello dei suoi punti vendita. Lo stupore si trasformò presto in sconforto di fronte all’affermazione dell’agente: “Qui non le conviene, poiché questo outlet è molto famoso e molto competitivo”.[1] Avventura simile e anche più complessa da interpretare è accaduta recentemente alla Salvatore Ferragamo, i cui prodotti sono stati importati in Corea attraverso il cosiddetto mercato parallelo e hanno, tra l’altro, trovato uno sbocco in un punto vendita Ferragamo falso.[2] Il problema della contraffazione e della pirateria causato dalla globalizzazione sta danneggiando pesantemente i marchi industriali e commerciali, ma più in generale rischia di mettere a repentaglio il processo di innovazione in sé. Dal 1993 al 2005 la contraffazione si stima cresciuta del 1850% su scala globale. La contraffazione si aggira intorno a valori che vanno dal 7% al 9% dei prodotti venduti, con una varianza alta, ma strutturalmente distribuita tra gran parte dei settori dell’economia reale: si va dal 6% nel caso del farmaceutico al 20% nel caso dell’abbigliamento, sino a toccare punte del 35% nel caso del software.[3]
Alla globalizzazione si deve oggi aggiungere la velocità con cui si muovono tecnologie e settori. Nel 1996, in seguito al deposito del brevetto di Viagra presso l’ente United States Patent and Trademark Office, Pfizer ha ottenuto la promessa standard a chi introduce una nuova entità molecolare (cioè un’innovazione radicale) di godere della rendita per un periodo di quindici anni, prima che i produttori di farmaci generici possano abbatterne i prezzi e, conseguentemente, dissiparne i margini. Peccato che il ghiotto bottino derivante da un mercato completamente nuovo, caratterizzato da crescite potenziali del 25% rispetto al 7% medio di settore, ha portato Eli Lilly a adottare una strategia aggressiva finalizzata a superare il brevetto Pfizer su effetti collaterali e dosaggio e le ha permesso di lanciare a soli sei anni (non quindici!) dal lancio effettivo di Viagra, avvenuto nel 1997, la pillola Cialis e di ottenere, entro il 2005, quasi la metà del mercato e, in alcuni mercati quali la Francia, addirittura la leadership. Nel settore del software la velocità di release di nuovi programmi sta portando sempre più le aziende a dimenticarsi anche di brevettarli: tempo e soldi spesi inutilmente soprattutto se si opera a partire da contesti istituzionali lenti dal punto di vista dell’enforcement.
Se globalizzazione e velocità tecnologica sembrano gli elementi più allarmanti, il vettore forse più eclatante della perdita di importanza di brevetti e copyright è intrinseco allo sviluppo economico ed è espresso dalla crescente terziarizzazione dell’economia e dalla presenza di una componente di servizio sempre più dominante nei processi di creazione di valore. Ne sa qualcosa Starbucks, che in seguito alla sua nascita ha visto proliferare negli Stati Uniti più di venti iniziative (da Seattle’s Best Coffee – Seattle è la città originaria di Starbucks – a Caribou Coffee) volte a imitare nella sostanza il business model dell’azienda con la premessa più o meno esplicita: “Starbucks fa la personalizzazione di massa, da noi trovate invece la vera personalizzazione!”. Com’è noto, oggi Starbucks sta soffrendo anche grazie agli ultimi colpi inferti dai cosiddetti superpremium coffee corner introdotti a inizio 2008 anche dai fast food più tradizionali quali Dunkin’ Donuts e MacDonald’s. Ma Starbucks e le aziende che producono servizi sono solo la punta dell’iceberg: cosa protegge l’azienda industriale che lavora sempre più sull’intangibile per trasferire un valore immateriale come il consumo esperienziale, che per sua natura è non brevettabile? Cosa protegge un produttore di software in un mondo che vive di open source software? E ancora: come si incentiva l’innovazione nella nuova frontiera dell’open source system, ovvero l’open source hardware?
Mentre il richiamo a un sistema di enforcement che sia sempre più efficiente nell’esercizio delle sanzioni, che risulti sempre più coordinato globalmente dalle varie autorità ad esso preposte e che riesca a evolvere anche con le nuove opportunità tecnologiche oggi a disposizione (si pensi a Internet e alla ancora incompleta cyberlaw) è il costante riferimento da parte di chi si occupa di questi temi ed è, dal punto di vista di chi scrive, altresì auspicabile, ci sembra altrettanto importante cercare di ragionare più a fondo per offrire alle imprese strumenti moderni e una mentalità che tenga in considerazione la specificità della situazione nella quale ci troviamo.
Tre ci sembrano le strategie emergenti per godere della (giusta) rendita da innovazione. La loro emersione pertiene ai contesti più vari, che hanno però un minimo comune denominatore: il ricorso sistematico all’innovazione, e in quanto tali ci sembra possano offrire i giusti spunti a chi ragiona su questo tema. Le strategie si riconducono a: 1. lo sviluppo di risorse complementari; 2. la creazione di specifiche norme sociali; e 3. la formazione di una cultura finalizzata all’innovazione continua. Vediamole una per una.
La storia di piccoli innovatori che non hanno potuto o saputo godere dell’innovazione – si pensi a tanti piccoli produttori di software negli anni ottanta, alle prime imprese di biotecnologia negli anni novanta, ma anche alle imprese che si sono lanciate in Internet a cavallo del nuovo millennio – ha messo in luce l’importanza degli asset complementari per poter direttamente godere della rendita da innovazione. La capacità logistica, di produzione, di marketing, di distribuzione sono spesso fondamentali risorse, complementari a quelle artistiche, scientifiche o tecnologiche che hanno portato all’ideazione dell’innovazione, che hanno fatto e che fanno la differenza tra chi non è riuscito a proteggere l’innovazione e chi invece ce l’ha fatta quando brevetti e copyright fanno fatica a espletare le loro funzioni. Di queste risorse sanno qualcosa, tra gli altri, Microsoft e Adobe nel software; Amgen e Genentech nel biotecnologico; Google e Yahoo! con riferimento al mondo Internet. Le risorse complementari consentono di arrivare dove i brevetti si fermano, fornendo all’innovatore una marcia in più in fase di sviluppo e introduzione nel mercato dell’innovazione. Oltre a ciò, il potenziale insito negli asset complementari è quello di differenziare nella sostanza l’innovazione e renderla inavvicinabile anche per l’imitatore più aggressivo. Si pensi all’azione strategica messa in campo da aziende emergenti quali Zara e H&M e a come essa rischi di ledere l’innovazione introdotta dai produttori di alta gamma con collezioni mirate a copiare i capi industriali più innovativi e a farli rotare velocemente nei propri punti di vendita, dotati di una marketing intelligence che è oggi invidiabile anche per i retailer del più consolidato mondo della distribuzione alimentare. Grazie alle risorse complementari, le case di alta moda più abili riescono comunque a contenere i danni di queste azioni di imitazione: grazie, per esempio, ai propri punti di vendita i marchi di alta gamma entrano a diretto contatto con il consumatore finale trasferendo progressivamente la competizione dal prodotto all’esperienza e rendendo sempre più differenziata l’innovazione dell’innovatore rispetto all’imitazione dell’inseguitore. Il fatto stesso che l’alta gamma stia oggi diversificando progressivamente in lounge, spa, hotel e, in generale, in prodotti di lusso (dai cellulari di Prada e Armani agli elicotteri di Versace) permette con maggiore probabilità di godere della rendita innovativa dello stile che trova poi concreta applicazione anche nel prodotto. A questo proposito, non è un caso che l’innovatore moderno per antonomasia, la Apple, voglia essere presente sulle vie del lusso (dalla Quinta strada di Manhattan a Regent Street a Londra) e si fregi del servizio gratuito di formazione all’utente Apple che viene offerto in spazi così costosi dal punto di vista immobiliare.
La seconda via è quella delle norme sociali. Lo scienziato che copia un’idea o un lavoro non ancora pubblicato perde la credibilità di scienziato e viene moralmente sanzionato dai colleghi nell’ambito delle comunità in cui fa ricerca. Se questa idea sembra lontana dalla pratica industriale (come direbbe qualcuno “alla fine business is business!”) esiste anche nel mondo industriale una morale che va ben oltre l’ondata di etica che sta oggi invadendo i dibattiti e le riviste di management. Ne ha recentemente dato prova Eric Von Hippel di MIT, il quale ha illustrato come nell’ambito dell’alta cucina francese, nonostante l’assenza di brevetti, copyright e risorse complementari, l’innovazione incrementale o radicale è protetta da un vincolo di norme di comportamento sociale particolarmente efficaci che lega tra loro (grazie alla loro esperienza, al loro background, ai loro contesti di appartenenza) gli chef dell’alta cucina.[4] Il cuoco che copia una ricetta senza citarla nel menu in cui la propone viene sanzionato e non avrà più il piacere di partecipare ai circuiti in cui si produce la vera conoscenza innovativa del settore. In una recente ricerca nell’ambito del settore del fashion stiamo riscontrando presupposti diversi nella forma, ma analoghi nella sostanza.[5] I designer dell’alta gamma, pur orientati a far convergere le rispettive innovazioni rispetto al fenomeno della moda, tendono a mantenere una profonda differenziazione che si manifesta nella creazione delle collezioni. Benché lo scambio di idee sia massimo nelle fasi più creative (i macro trend vengono addirittura condivisi con consulenti esperti ed eventi mirati; in fiere dedicate i fornitori di materiale definiscono i moduli su cui l’innovazione della singola collezione viene impostata), si manifesta in seguito una fase selettiva altamente idiosincratica all’azienda che porta non solo a non comunicare il contenuto dell’innovazione prima che sia introdotta nel mercato, ma a sanzionare con la perdita di reputazione il designer che ha imitato in modo frivolo un’innovazione, magari radicale, per il successo che questa ha ottenuto sul mercato. Se scienza, cucina e alta moda sembrano contesti peculiari poiché guidati prevalentemente dalla creatività, la crescente capacità di dialogo interna ed esterna alle aziende, con e tra i consumatori attraverso, per esempio, nuovi strumenti quali i blog e le comunità virtuali sta sicuramente dischiudendo un nuovo scenario in cui le opportunità di legittimazione, ma anche di sanzione, potranno avere una valenza sempre maggiore in molteplici contesti.
Da ultimo, la protezione dell’innovazione deriva dalla cultura di cambiamento e dal sapere (e volere) cannibalizzare il proprio successo e i propri prodotti a un livello di innovazione ancora più alto. L’esempio con cui abbiamo iniziato l’articolo va in questa direzione: l’instancabilità di Apple, il suo saper evitare di sedersi sugli allori e il suo spingere la frontiera dell’imitazione verso un orizzonte sempre diverso è, forse, uno dei metodi di maggior protezione dell’innovazione. La forza della statunitense Pixar nella produzione cinematografica, quella dell’inglese Tesco e della stessa Esselunga nel non stancarsi a ricercare nuove frontiere di cambiamento che portano queste aziende a evolvere costantemente con la tecnologia e con la creatività verso concept di prodotto o format distributivi sempre più differenziati è ulteriore esempio di questa logica di fondo.
Chi protegge quindi l’innovazione oggi? Difficile naturalmente dare una risposta che non coinvolga l’evoluzione dell’infrastruttura giuridica in cui l’innovazione viene lanciata e che non auspichi il suo adeguamento a un mondo in costante mutazione. A prescindere da ciò, risorse complementari, norme sociali e cultura dell’innovazione sembrano però nuove strade influenti da osservare. Alla fine, forse, saranno proprio queste le strategie emergenti in grado di incidere sostanzialmente sulla protezione dell’innovazione. Alla domanda: “chi veramente protegge oggi l’innovazione?” è quindi forse possibile dare una risposta provocatoria, ma allo stesso tempo concreta: la protezione dell’innovazione deriva proprio dalla volontà e dalla capacità continua di fare innovazione. In sostanza, chi proteggerà sempre più l’innovazione negli anni a venire è probabilmente l’innovazione stessa.
Per approfondire questa e altre evidenze empiriche legate al tema della contraffazione nel mondo globale si rimanda a Di Stefano G., Verona G. (2007), Protecting Innovation in Low-IPR Regimes: The Case of Fine Fashion (A) and (B). Case Study, Università Bocconi.
OECD (2007), The Economic Impact of Counterfeiting and Piracy. http://www.oecd.rg/dataoecd/11/38/38704571.pdf