E&M

1998/4

Gianni Canova

PESCI D'APRILE. Tempo, progetto e management nell'ultimo film di Nanni Moretti

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Aprile

Regia: Nanni Moretti

Interpreti: Nanni Moretti, Silvia Nono, Silvio Orlando

Italia, 1998

Voler fare e non riuscire a fare. Scontrarsi con lo scarto che spesso separa l’intenzione (o il progetto) e la sua realizzazione pratica. Sperimentare la difficoltà di concretizzare un’intuizione. E verificare come spesse la vita e la realtà (con i loro ostacoli, i loro imprevisti, le loro inevitabili distrazioni) finiscano per intralciare anche il più determinato e caparbio programma creativo. Aprile di Nanni Moretti è un po’tutto questo. Anche tutto questo. Accolto dalla stampa e dai media come il “diario filmato” di un cineasta nel periodo compreso tra la vittoria di Berlusconi alle elezioni del 1994 e la successiva rivincita dell’Ulivo nel 1996, l’ultimo film del regista di Caro diario e La messa è finita può essere letto (e gustato) anche in quest’ottica particolare: come la radiografia in progress di un progetto creativo che stenta a concretizzarsi, insidiato com’è dagli altri innumerevoli stimoli che distraggono l’autore dal suo obiettivo iniziale.

Moretti vorrebbe fare un film “politico”. C’è un committente preciso che glielo chiede: un giornalista francese che. all’inizio del film, gli ricorda come sia difficile all’estero capire in profondità la situazione socio-politica italiana e come sarebbe utile che qualcuno provasse a spiegare anche agli stranieri, con strumenti diversi da quelli della cronaca giornalistica spicciola quel che sta succedendo nel Bel Paese, e come questo stia cambiando. Detto fatto. Moretti si lancia nell’impresa (che si configura, in fondo, come un classico caso di “internazionalizzazione”). Si documenta con puntiglio. Ritaglia e archivia decine e decine di articoli di giornale. Corre con la sua piccola troupe a filmare tutte le situazioni-simbolo (dalla manifestazione della Lega sul Po allo sbarco degli albanesi a Brindisi) che possono dare un’idea di quel che accade in Italia.

Il metodo di lavoro appare ineccepibile: raccolta di dati e immagazzinamento d: materiali in vista di una successiva e sintetica rielaborazione interpretativa. Intanto, però, altri stimoli premono, altri interessi si fanno avanti: la voglia di fare un film diverso (un musical su un pasticciere stravagante nell’Italia degli anni Cinquanta), l’attesa di un figlio che sta per nascere e che rende ansioso e nervoso l’autore. A poco a poco il progetto iniziale si incarta (come Moretti che viene quasi “inghiottito” nel maxi-collage di articoli di stampa che ha vanamente preparato): la motivazione iniziale si indebolisce, la committenza è lontana, i nuovi progetti possibili (fare un film sul proprio diventar padre) confliggono con quello originario e il tutto contribuisce a determinare una situazione di impasse. Sembra di trovarsi di fronte a un classico caso di crisi nel management aziendale: la situazione di incertezza sulle priorità e le motivazioni affievolisce la capacità progettuale e realizzativa, il dubbio che altre strade possano rivelarsi più proficue e interessanti finisce per produrre inerzia e perplessità. Cioè inazione. O dispersione su più progetti, nessuno dei quali riesce però a diventare determinante.

Così Moretti prende (o perde?) tempo. Rinvia. Si immerge in vigorosi (ma spesso improduttivi) esercizi di training autogeno (“Devo farlo. Devo. Devo assolutamente…”). E finisce a poco a poco per dimenticare l’imperativo debole della committenza iniziale per concentrarsi su ciò che d’istinto “sente” di più: il film sul figlio che sta per nascere, sulle doglie della moglie, sulle sue ansie di quarantenne alle prese per la prima volta con le gioie e i problemi della paternità. Per questa via, paradossalmente, finisce per raccontare l’Italia (o qualche frammento di essa) con molta più convinzione ed efficacia persuasiva di quanto non riuscisse a tare con le immagini, inerti (e lontane) strappate alla cronaca e alla politica. E va molto vicino all’obiettivo iniziale seguendo una via diversa da quella programmata: raccontando cioè la difficoltà di raccontare, e scegliendo di far passare il discorso sul sociale attraverso il filtro della sua personale esperienza privata.

Forse non è il caso di trarne una lezione di metodo con pretese di valore universale, ma qualche suggerimento (qualche suggestione) sicuramente sì.

Perché Aprile ci dice e ci ricorda come sia improduttivo intestardirsi su un percorso non sentito. Come il riconoscere una impasse possa risultare più produttivo che esorcizzarla o dissimularla. E come non c’è pianificazione che tenga di fronte alla scarsa convinzione di chi deve metterla in atto (o di fronte alle “resistenze” della realtà nei confronti del proprio progetto).

C’è una sequenza di grande effetto e di intenso valore metaforico nel finale del film: quella in cui un amico, per smuovere Moretti dalla sua inerzia, gli regala un metro retrattile che gli ricorda quanto poco tempo di vita gli resti per continuare a realizzare i propri progetti. “Quanto tempo ti aspetti di vivere?” gli chiede l’amico con ironico cinismo. “Ottant’anni. Bene: ne hai 44 e li sottraiamo dal metro. Questo è quello che ti rimane”. Attonito e meditabondo, per un po’Moretti se ne va in giro col metro sfilato sui 36 anni che potenzialmente gli rimangono, poi decide che non è più il caso di sprecare tempo e mette in cantiere nuovi progetti con la rinnovata volontà di realizzarli al più presto.

Il tempo: vero tema del film fin dal titolo I e dalla sua marcata connotazione “da calendario”) e dalle date che scandiscono l’intreccio (primavera 1994, primavera 1996), Aprile fa interagire con intelligenza la variabile temporale con le dinamiche progettuali e professionali dei personaggi, che sperimentano nei frammenti di diario a loro riservati proprio diverse modalità di uso del tempo. Tempo dell’attesa, tempo del riscatto, tempo della Storia, tempo dell’io. E ancora: tempo del progettare e tempo del fare, tempo della decisione e tempo della verifica. Come il manager di una grande azienda, anche il regista-Moretti si trova a dover organizzare il tempo dei suoi collaboratori, a dover coordinare le asincronie di chi ruota attorno a lui e a cercare di conciliare il suo tempo privato con le esigenze che gli vengono dai tempi di lavoro.

Dirigere un film, in fondo, è un po’come dirigere un’azienda: il cinema italiano ha spesso sottovalutato l’analogia, l’ha nascosta o trascurata. Aprile ha, tra le righe, il merito di ricordarsela. Evidenziando le affinità tra due settori professionali che solo un inveterato luogo comune continua a considerare come irrelati e lontani.