E&M

1998/2

Claudio Dematté

Il sommerso come necessità e come nemico dell'economia forte

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Premessa

C’è nel nostro modello di sviluppo una peculiarità che ci distingue dagli altri Paesi sviluppati: quella di avere una parte rilevante della nostra economia condotta al di fuori delle norme fiscali, contributive e del lavoro. Vi è inoltre una quantità, più difficile da stimare, di attività illegali in senso stretto (commercio di droga, prostituzione ecc). Concentrando l’attenzione sull’economia sommersa, vi sono stime diverse sulla sua dimensione: esse differiscono secondo i centri di analisi, ma tutte convergono verso valori molto elevati, nell’ordine dei 200-250.000 miliardi. Questo dato è sufficiente per indicare che non si tratta affatto di un fenomeno marginale, presente in qualsiasi società umana quale effetto delle azioni di quella porzione minoritaria di popolazione che rifiuta strutturalmente il rispetto delle leggi. Il fenomeno in Italia ha dimensioni e caratteristiche che vanno ben oltre i livelli di anomalia che sono “fisiologici”.

In realtà il problema risalta ancora di più nella sua vera natura allorché si tenga conto che l’attività sommersa – cioè l’insieme di quelle attività legittime ma condotte al di fuori delle norme – è fortemente concentrata in alcune aree del Paese. Proprio per questa forte concentrazione geografica, in talune zone essa ha un rilievo di gran lunga superiore a quello che traspare dal dato medio: anzi è diventata norma, più che deviazione.

In passato molti osservatori avevano puntato l’attenzione verso questa anomalia per stigmatizzarne l’effetto negativo sui conti dello Stato direttamente attraverso la sottrazione di entrate fiscali; indirettamente attraverso gli effetti sull’INPS che poi ricadono sul bilancio statale. Questa stigmatizzazione è comprensibile, dati i disavanzi, il debito pubblico e l’iniquità dell’evasione; ma le effettive perdite fiscali o parafiscali sono difficili da stimare, perché una valutazione siffatta presupporrebbe di accertare preliminarmente quali attività sommerse rimarrebbero in vita allorché fossero costrette ad operare secondo norme. La grande diffusione del sommerso, e la sua forte concentrazione in certe aree, nelle quali nonostante queste attività in nero rimane un elevato livello di inoccupati, lascia pensare che una parte cospicua del sommerso non corrisponda sic et simpliciter alla volontà di evadere le imposte o i contributi, ma piuttosto ad una specie di drammatica “necessità di sopravvivenza”. Una conferma indiretta che la realtà possa avere queste caratteristiche – almeno in certe zone – si ha notando che molte di queste attività irregolari sono a basso valore aggiunto e, nonostante l’evasione, faticano a sopravvivere. Una ulteriore conferma si ottiene considerando lo stato di grave difficoltà, se non di crisi palese, che investe le imprese che nelle stesse aree hanno avuto il coraggio e l’onestà di condurre le loro operazioni alle condizioni fissate dalle leggi del lavoro e dalle norme fiscali.

Alla luce di questi indizi si può pensare che per molte attività “povere” per loro natura e per di più localizzate in aree a bassa produttività, la conduzione in “sommerso” sia purtroppo obbligata: una dura necessità per evitarne la chiusura e la disoccupazione, vista la mancanza di attività sostitutive a maggior valore aggiunto in grado di reggersi sul mercato. Per questo tipo di attività, mantenute in vita proprio grazie al regime irregolare, non si dovrebbe parlare di perdita di entrate fiscali, perché nemmeno esisterebbero se dovessero essere gestite secondo norma.

Ma la gestione in sommerso, anche se non avesse di fatto alcun effetto negativo sul fronte fiscale, ha però molte altre e ben più gravi controindicazioni, alcune delle quali attengono a questioni di fondo quali il funzionamento dei mercati e l’operatività interna delle imprese. I guasti che si possono produrre su questi fronti sono di gran lunga superiori a quelli conseguenti alla perdita di entrate fiscali.

Per questo l’attività sommersa va esaminata con più attenzione e con diversa prospettiva di quanto si sia fatto finora; ne vanno individuate le cause: occorre ragionare sui vantaggi e sulle controindicazioni; infine bisogna trarne indicazioni di politica generale e aziendale. La tesi di fondo, che qui si vuole dimostrare, è che una parte dell’economia sommersa è il frutto di un comportamento illegale da reprimere senz’altro.

Ma un’altra parte – tutt’altro che marginale – è l’effetto indotto di distorsioni nelle norme, più che nei comportamenti degli imprenditori e dei cittadini. E ciò in base alla convinzione che la maggior parte dei cittadini non gradisca affatto vivere contro le leggi, ma vi si rassegni se non ha alternative. In questo caso la cura non può essere la repressione, ma una revisione delle norme, alla luce delle condizioni che le rendono praticabili o irrealistiche.

Per il resto dell’articolo si veda il pdf allegato.