E&M

1996/6

Gianni Canova

Dagli accessori sanitari al pâté de foie gras: come riconvertire la propria imprenditorialità e vivere felici

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La felicità è dietro l’angolo

Regia: Etienne Chatiliez

Int.: Michelle Serrault, Sabine Azema e Carmen Maura

Francia, 1996

Seccature, problemi, incomprensioni, routine: anche al manager o all’imprenditore più “navigato” può capitare, a volte, di non poterne più. Al personaggio interpretato da Michel Serrault nell’ultimo film del regista francese Etienne Chatiliez (La vita è un lungo fiume tranquillo, Zia Angelina) succede esattamente la stessa cosa.

Piccolo imprenditore della provincia francese, proprietario di un atelier specializzato nella produzione di oggetti da arredo-bagno, si rende conto all’improvviso di essersi infilato in un cul-de-sac: il mercato è saturo e non assorbe più come un tempo, le operaie sono scontente e protestano scioperando, il fisco lo tiene nel mirino e lo vessa con ispezioni e multe esagerate. Per di più, come se non bastasse, anche la vita privata non è esattamente rosea: la moglie acidulo-petulante e la figlia snob e viziata lo spremono con pretese assurde e lo usano come un “bancomat” in carne ed ossa, il tran tran quotidiano diventa soffocante, le motivazioni sembrano sfiorire ogni giorno di più.

Che fare? La situazione – nella sua tipicità quasi da parabola – è per molti versi esemplare e trova riscontro in una vasta casistica ampiamente diffusa anche nel contesto italiano. Il film di Etienne Chatiliez offre una soluzione in apparenza paradossale, ma di fatto foriera di suggerimenti suggestivi pur nella sua esibita provocatorietà.

Dunque: nella finzione del film il nostro piccolo imprenditore in crisi – coscienziale oltre che aziendale – trova un aiuto inaspettato nella Tv. O forse usa la Tv per inventarsi l’occasione di cui sente di avere bisogno. Una sera, mentre osserva svogliato una puntata di Où es-tu? (più o meno l’equivalente francese del nostro Chi l’ha visto?), scopre di assomigliare in modo impressionante a un uomo misteriosamente scomparso trent’anni prima e ora ricercato nell’etere da una famiglia che pare affettuosa e premurosa. La tentazione è grossa e il nostro non se la lascia scappare: si fa passare per quell’uomo e decide con lucida determinazione di cambiare radicalmente vita.

Sul piano decisionale, la scelta del personaggio si configura come un esempio paradigmatico di accettazione del rischio, o come sfida: per uscire da una situazione di stallo esasperata e difficile da gestire, il piccolo industriale del film sceglie di rompere le regole del gioco e di approfittare di una piccola e improvvisa opportunità che la vita gli offre per ricominciare – letteralmente – daccapo.

In realtà, lo sviluppo narrativo del film dimostra con sufficiente persuasività che non è mai possibile cancellare del tutto il passato: l’eroe di Chatiliez, infatti, applica anche nell’attività a cui si dedica la sua nuova “famiglia ritrovata” (la produzione di pâté de foie gras) i metodi e le tecniche sperimentali nella sua precedente esperienza imprenditoriale, con risultati più che lusinghieri.

L’adozione di un punto di vista inedito gli consente infatti di affrontare i problemi aggirando incrostazioni e abitudini mentali consolidate, tanto da diventare – quasi a sua insaputa – un oggettivo vettore di innovazione. Del resto, il suo successo con la nuova attività e con la nuova famiglia è tale che gli riesce perfino di trovare i capitali necessari per risollevare le sorti del suo vecchio atelier, precipitato in condizioni preoccupanti a causa della fallimentare gestione della ex-moglie.

Il tutto si basa su una menzogna? Su una falsa dichiarazione di identità? Forse addirittura su un’attività non proprio limpida? Poco importa. “Pecunia non olet”, ribadisce sorridendo il film di Chatiliez. Non solo: alla fine si scopre che tutti sapevano tutto fin dall’inizio, che nessuno aveva mai creduto alla storia della nuova identità e della “famiglia ritrovata”, ma che ognuno aveva preferito tacere, nella convinzione più o meno consapevole che quel cambiamento era proprio ciò di cui tutti – per diverse ragioni – avevano bisogno. Era ciò che forse, segretamente, agognavano. Accanto al denaro, anche la “maschera” non puzza, anche la finzione: almeno quando servono ad introdurre nuove dinamiche sociali e motivazionali in un contesto irrigidito e bloccato in un gioco delle parti ormai esaurito.

Nel suo tono ridanciano da farsesca commedia degli equivoci, tutta giocata sul registro del paradosso, La felicità è dietro l’angolo tesse un piccolo elogio del rischio e della spregiudicatezza: ci ricorda che a volte rinunciare a sicurezze e a garanzie per inoltrarsi su sentieri “azzardati” e sconosciuti può risultare appagante e remunerativo e che per sconfiggere l’obsolescenza (tanto aziendale quanto esistenziale) spesso può esser necessario mettere in discussione l’eccesso di stabilità.

Il protagonista del film spezza le consuetudini, esce dai binari precostituiti, rischia: ed è proprio grazie a questa scelta coraggiosa che riesce anche a ricrearsi quel “contesto” di emozioni e di passioni che gli serve per ottimizzare ad ogni livello il suo rapporto con il lavoro, con le cose e con le persone.

In fondo – è la morale del film – anche il pâté de foie gras può rendere felici: basta saperlo vedere (e vendere!), basta non rifiutarlo a priori se non rientra già nelle proprie abitudini mentali. Il rischio ha bisogno di curiosità, il successo esige flessibilità e disponibilità a cambiare. In azienda come in un film, al cinema come nella vita.