E&M

2014/3

Gianni Canova Severino Salvemini

Smetto quando voglio. Sette uomini d’oro

Con Smetto quando voglio l’esordiente Sidney Sibilia confeziona una divertente commedia di situazione che offre un paradossale sbocco professionale al precariato d’eccellenza e riflette sui rapporti, le analogie e le differenze fra un team aziendale e una gang criminale. Da strapazzo.

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Smetto quando voglio

Regia: Sidney Sibilia

Interpreti: Edoardo Leo, Valeria Solarino, Libero De Rienzo

Italia, 2014

 

Giovani (o quasi), carini (più o meno) e disoccupati (in sostanza). Sono un neurobiologo geniale che ha sviluppato un rivoluzionario algoritmo per la modellizzazione teorica di molecole organiche ma che si vede negare un assegno di ricerca in università e fa fatica a sbarcare il lunario, un chimico che fa il lavapiatti in un ristorante cinese, due eccellenti latinisti impiegati come benzinai per un gestore bengalese, un antropologo esperto conoscitore delle tribù umane, un archeologo talmente malmesso che si fa pagare il pranzo dai suoi sottoposti e un macroeconomista che si arrabatta giocando a poker. Cos’hanno in comune? Tutto e nulla: sono laureati con il massimo dei voti e hanno una reputazione altissima nelle rispettive comunità scientifiche, ma hanno anche tutti alle spalle carriere accademiche abortite. L’Università italiana non sa che farsene di loro. Anche se sono cervelli raffinati, anche se hanno specializzazioni eccellenti, l’Accademia li teme. Perché potrebbero fare ombra a chi detiene il potere. O dimostrare quanto sia urgente e improcrastinabile un ricambio generazionale. Così, li lascia ai margini. Li obbliga ad arrabattarsi. E loro si adeguano. Anche se, prima di rassegnarsi a emigrare, i sette tentano l’ultima carta: unire le loro competenze per mettere in piedi una piccola impresa criminale. Il biologo scopre che sintetizzando una certa molecola se ne ricava una droga potentissima che ancora non figura nell’elenco delle sostanze proibite pubblicato periodicamente dal ministero della Salute. Scoprono, insomma, una nuova droga non illegale e decidono di commercializzarla. Ognuno porta nell’impresa le proprie competenze scientifiche, come avviene in qualsiasi team, e in poco tempo la start-up si rivela azzeccatissima: gli affari vanno a gonfie vele e i sette uomini d’oro – per riprendere il titolo di un fortunato film di Marco Vicario degli anni sessanta – passano in pochi giorni da uno stato molto prossimo all’indigenza a una situazione non solo di benessere ma anche di lusso e di abbondante disponibilità. Quanto può durare? Da un’idea nata leggendo un articolo di giornale (due laureati in filosofia con il massimo dei voti e con tanto di master ridotti a fare i netturbini all’AMA, società di pulizia delle strade di Roma), il regista esordiente Sidney Sibilia, salernitano, imbastisce una frizzante commedia generazionale che mette a fuoco le contraddizioni della generazione condannata al precariato perenne, ma anche le analogie fra la costruzione di un’azienda legale e la fondazione di un’impresa che se non è illegale, comunque – certamente – è criminale. Ne discutono, come di consueto, Gianni Canova e Severino Salvemini.

 

S.S. Il film intercetta una condizione sociale diffusa, il cosiddetto precariato d’eccellenza.

Più che disoccupati, i protagonisti del film non sono stati mai impiegati. Sentono la frustrazione di non potersi mantenere autonomamente in un sistema in cui la meritocrazia è utopia. Sono l’amara evidenza di un paese in cui corruzione e nepotismo la fanno da padroni. Alle loro spalle c’è un’Università piena di giochi di potere politici, di baronati accademici e di nepotismi genealogici e clientelari…

 

G.C. Tutto vero. Ma sono cose che il cinema ha già raccontato più volte (anche se in Italia meno che altrove). Di nuovo, nel film di Sidney Sibilia, c’è il fatto che i nostri cervelli, invece di piangere, lamentarsi o emigrare, decidono di delinquere. Ed è proprio su questa decisione che si innesta il paradosso del film: che cosa succederebbe se alcuni cervelloni disperati si stufassero di essere respinti dal sistema? E se a delinquere fossero le menti più brillanti in circolazione? Come reagirebbe la società di fronte a giovani che dovevano fare i ricercatori e invece finiscono ricercati?

 

S.S. È vero, è la logica del paradosso che domina e regola lo sviluppo del racconto, e che offre spesso lo spunto anche per alcune delle trovate sociologicamente più graffianti del film. Penso, per esempio, alla sequenza in cui uno dei sette, a colloquio con uno sfasciacarrozze che potrebbe assumerlo, cerca di nascondere il suo lessico “colto” e usa un linguaggio ostentatamente volgare e plebeo nella speranza che ciò lo aiuti ad acchiappare un ruolo da manovale, ma si tradisce proprio sul piano del linguaggio. Come gli fa notare, di rimando, lo sfasciacarrozze: “Hai detto diatriba, nun me ‘nganni, hai studiato, nun te posso pija’...”).

 

G.C. Certo, il film ha il merito di raffigurare una situazione sociale in cui competenza e conoscenza devono essere nascoste, dissimulate, taciute, perché poco apprezzate da un mercato del lavoro impazzito che sembra cercare solo ruoli assolutamente dequalificati. E tuttavia, su questa analisi sociologicamente corretta e pertinente, il film ha il merito di intervenire utilizzando un archetipo filmico ipercollaudato quale è quello di I soliti ignoti. Invece che una commedia sociale, diventa una sorta di Italian Hustle, un film di truffa basato sullo stereotipo della costruzione della gang…

 

S.S. E in questo direi che il film applica lo stereotipo con intelligenza ma anche con ironia, mostrando – con i suoi colori acidi e lisergici, con i suoi cromatismi fluorescenti e psichedelici – come la distribuzione dei ruoli e la sinergia delle competenze siano solo esigenze ideali e virtuali. In realtà il protagonista, interpretato da Edoardo Leo, sceglie soprattutto i suoi coetanei disoccupati che sono come lui bisognosi di arricchirsi in fretta. Il risultato è che, di fatto, sembrano tutti dei dilettanti allo sbaraglio, o – per citare Woody Allen – dei criminali da strapazzo…

 

G.C. Bellissimo riferimento. Ma fra il Woody Allen di Criminali da strapazzo e i protagonisti del film c’è una differenza non da poco: benché si faccia chiamare “la Mente” e ostenti la sicurezza di chi è vecchio del mestiere, Woody è cialtronesco e pasticcione, e quando progetta di scavare un tunnel sotterraneo per raggiungere il foyer della banca che intende rapinare si rivela immediatamente inadeguato rispetto all’obiettivo: come nella miglior tradizione comica, ogni suo gesto produce effetti opposti a quelli desiderati. Il tipo del millantatore vanaglorioso e velleitario, insomma. I “criminali” di Smetto quando voglio, invece, sono tutt’altro che inadeguati. A modo loro sono dei professionisti. Sanno organizzare il lavoro. Se sbagliano non è per incompetenza, ma per l’incapacità di resistere alle tentazioni e alle lusinghe di un’improvvisa ed eccessiva ricchezza.

 

S.S. Non sono del tutto d’accordo. Secondo me il loro problema è che, a causa della loro formazione accademica, hanno una scarsa attitudine al fare. Sono intellettuali dotati di scarso senso pratico, segnati da un comune senso di frustrazione esistenziale e da una sostanziale mitezza di fondo. Non hanno abilità specifiche. Per di più, abituati a essere borderline, non reggono il centro della scena…

 

G.C. Aggiungerei anche – per riprendere il titolo del film – che non hanno la percezione esatta del gioco in cui si sono infilati, sono convinti di poter smettere con la stessa facilità con cui hanno iniziato. E invece non è così. A un certo punto scoprono che non hanno più in mano il loro destino, ma non sanno più come fare a riprenderselo. E in questo sta forse il tratto più amaro non solo del film, ma anche del ritratto della generazione che il film racconta e mette in scena. Che alla fine si ritrova a fare carte false pur di conservare un posto di docente in carcere. Anche i criminali, in Italia, gratta gratta, scopri che in fondo aspirano soprattutto al posto pubblico… ?