E&M

2014/2

Guido Corbetta

La governance come fonte di vantaggio aziendale

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Un’impresa – statale o privata, manifatturiera o di servizi, bancaria o non bancaria, piccola o grande, quotata o non quotata – può crescere solo se è dotata di alcune risorse. In breve, la prima risorsa è la capacità imprenditoriale che consiste essenzialmente nel saper mettere a punto una visione sostenibile per il futuro dell’azienda. Per crescere, le imprese hanno poi bisogno di altri due tipi di risorse:

 

·         le risorse finanziarie a titolo di debito o di rischio, talvolta anche in misura ingente per sostenere processi straordinari come le acqui­sizioni di altre aziende, strumento spesso indispensabile per raggiungere posizioni di leadership internazionali;

·         le capacità manageriali per organizzare il lavoro dei collaboratori, talvolta anche in misura notevole date le dimensioni e il grado di complessità dell’azienda.

 

In prima approssimazione, i sistemi di governo delle aziende (la governance) possono essere utili per facilitare l’acquisizione e il mantenimento di tutte e tre le risorse citate. Un consiglio di amministrazione ben funzionante può dare un contributo a:[1]

 

·         selezionare, indirizzare, controllare e valutare la persona o le persone in grado di mettere a punto la visione imprenditoriale;

·         acquisire risorse finanziarie dai mercati finanziari o dal sistema bancario nella dimensione necessaria e a costi competitivi;

·         attrarre manager preparati e mantenerli all’interno dell’azienda.

 

L’applicazione del Codice di Autodisciplina per le società quotate, introdotto in Italia sin dal 1999, e il lavoro di molti studiosi, società di consulenza, associazioni dedicate hanno favorito la diffusione di una serie di buone prassi che certamente hanno migliorato il ruolo, la composizione, il funzionamento dei consigli di amministrazione delle società quotate, e non solo.[2] E queste prassi hanno impatti positivi sui risultati delle imprese. Solo a titolo di esempio, una ricerca sulle società quotate italiane pubblicata sullo scorso numero della nostra rivista concludeva: “i risultati delle analisi mostrano come, al crescere degli amministratori indipendenti, vi sia un miglioramento della qualità degli utili”.[3]

Eppure, la realtà ci restituisce un quadro con non poche ombre. In primo luogo, se guardiamo alle società quotate, vi sono casi in cui, benché le regole suggerite dal Codice di Autodisciplina siano rispettate, i comportamenti rivelano che tale rispetto è solo formale. Non si possono spiegare altrimenti i casi di aziende come quelle del Gruppo Ligresti o del Gruppo SEAT, per limitarci ai più clamorosi e recenti. Nel primo esempio, i componenti di una famiglia proprietaria hanno “estratto” dalle imprese controllate un’enorme massa di risorse economiche con vari sistemi, quali la vendita all’impresa quotata di asset familiari a valori elevati, compensi a vario titolo in misura sproporzionata ai risultati aziendali, attribuzione all’impresa di costi del tutto impropri.

Nel secondo caso, fondi di private equity hanno accumulato in capo all’impresa un debito insostenibile, manager ritenuti professionali hanno realizzato processi di acquisizione di aziende rivendute dopo pochi mesi a valori molto più bassi e questi stessi manager hanno goduto di compensi e trattamenti di fine rapporto di valore molto elevato. Tra l’altro, Ligresti è un’azienda controllata da una famiglia, mentre SEAT è un’azienda controllata da soggetti diversi, a dimostrazione che la natura dell’azionista di controllo non è sempre una variabile utile per discriminare tra buoni e cattivi comportamenti.

Se pensiamo poi alle aziende non quotate a controllo statale o municipale, il quadro si fa ancora più fosco. Il caso dell’INPS, dove il presidente esecutivo aveva poteri sostanzialmente illimitati ed era impegnato in molte altre attività, alcune delle quali anche con relazioni economiche con l’INPS stesso, suscita enormi perplessità. E la composizione di alcuni consigli di amministrazione di società municipalizzate suona dettata da logiche che poco hanno a che fare con la professionalità e il merito e, forse anche per questo, non sono poche le aziende controllate da Regioni, Province o Comuni che presentano risultati che mettono addirittura a rischio la loro sopravvivenza.

Se guardiamo alle piccole e medie aziende a controllo familiare, uno dei punti di forza del nostro paese, sappiamo quanto sia limitata la presenza di consiglieri di amministrazione in grado di esercitare il proprio ruolo secondo modalità “criticamente costruttive”. Di fatto, spesso i consigli di amministrazione di molte di queste aziende sono composti solo da familiari impegnati anche nella gestione oppure vedono la presenza di professionisti che, per amicizia o per interesse, non hanno incentivi a svolgere il loro ruolo con incisività.

Il quadro è ancora più problematico quando si prova a “entrare” nelle riunioni dei consigli di amministrazione. Non è raro scoprire casi di aziende dove:

 

·         i materiali sui vari punti all’ordine del giorno non sono inviati ai consiglieri prima delle riunioni o sono inviati senza una guida alla lettura. In entrambi i casi, la conseguenza ovvia è che il dibattito in consiglio non possa essere sufficientemente approfondito;

·         le riunioni hanno una durata così breve da far nascere qualche dubbio sulla reale possibilità di svolgere un dibattito ampio sui numerosi punti posti all’ordine del giorno;

·         amministratori delegati un po’ insofferenti presentano velocemente strategie e risultati senza tanta attenzione ai commenti che possono venire dai consiglieri, ritenuti poco preparati per poter intervenire nel merito;

·         verbali talmente sintetici non costituiscono una traccia utile per valutare poi la coerenza dei comportamenti successivi e per poter quindi svolgere un’adeguata valutazione degli stessi.

 

Cosa si può fare, allora, per rendere più numerosi i casi in cui i sistemi di governo delle imprese possano essere uno strumento per aumentare il vantaggio aziendale? Proviamo a definire un’agenda di lavoro. In primo luogo, occorre continuare con fiducia a promuovere la crescita della consapevolezza di quanto possa essere utile una buona governance. Autorità pubbliche come la Consob, il Comitato per la corporate governance promosso da Borsa Italiana, associazioni di imprese come Assonime, associazioni di investitori come Assogestioni, associazioni di persone come NedCommunity, società di consulenza come Spencer Stuart devono continuare a lavorare per affinare i criteri per un buon governo delle imprese e per “convincere” azionisti, imprenditori e manager che l’adozione di un buon sistema di governo conviene perché migliora le performance delle imprese e, soprattutto, riduce il loro profilo di rischio.

Su questo punto, vale la pena sottolineare le ragioni per le quali un consiglio di amministrazione ben funzionante può diventare una fonte di vantaggio aziendale. Esso può infatti diventare il luogo dove:

 

·         si migliora la qualità delle decisioni strategiche: se esistono nel consiglio competenze adatte e se si dedica un tempo adeguato a discutere le proposte dell’amministratore delegato, si raggiunge il risultato di “mettere alla prova” tali proposte e quindi di validarle con maggior sicurezza;

·         si indirizza e si controlla l’operato dei responsabili della gestione: senza un organo capace di esercitare tale ruolo, l’amministratore delegato e i suoi collaboratori incorrono nel rischio di pensare di non dover rendere conto a nessuno;

·         si valutano i profili di nuovi candidati alla posizione di amministratore delegato ove se ne presentasse la necessità;

·         si favorisce l’inserimento di manager di valore: un manager capace può essere attratto solo da quelle aziende dove esista una chiara distinzione di ruoli e responsabilità tra proprietari, consiglieri di amministrazione e manager;

·         si discutono e si regolano i conflitti di interesse con i proprietari dell’azienda: tale contributo è particolarmente importante nelle imprese a capitale chiuso e controllato da uno o pochi soggetti che corrono più di altri il rischio di non riuscire a distinguere i propri interessi da quelli dell’azienda, posto che essi non sono sempre convergenti.

 

Ma, tenendo conto delle ombre prima evidenziate, è chiaro che tali interventi “soft” non sono sufficienti. Un secondo tipo di interventi deve quindi essere più cogente. Penso a qualche obbligo sancito per legge. Per esempio, potrebbe essere utile obbligare tutte le società di capitali a comunicare nel fascicolo di bilancio alcune informazioni relative alla composizione del CdA, al profilo dei consiglieri e alle modalità di funzionamento del CdA (numero di riunioni, durata delle riunioni ecc.). Oggi, come noto, si comunicano solo i compensi. Penso anche a un obbligo per i consiglieri di tutte le società con dimensione superiore a una certa soglia di seguire un seminario di formazione certificato a ogni rinnovo del CdA.

Di recente, l’EBA (European Banking Authority) ha incluso questa richiesta tra le raccomandazioni per i membri dei CdA delle banche europee. Le associazioni degli imprenditori e le scuole di formazione potrebbero utilmente unire gli sforzi per promuovere questa pratica. La stessa pratica potrebbe poi essere rafforzata attraverso lo sviluppo di un’associazione che certifichi la qualità dei consiglieri indipendenti, sull’esempio della National Association of Corporate Directors (NACD) americana, dell’Institute of Directors inglese o della Styrelse Akademien svedese. Basti pensare che, nel caso nordamericano, a luglio 2013 il 76% dei consiglieri delle società Fortune 1000 era membro del NACD.

Tali obblighi potrebbero essere rafforzati ove le banche, che ancora oggi rappresentano la fonte più importante di risorse finanziarie per le imprese, adottassero comportamenti molto più rigorosi nell’inserire la qualità dei sistemi di governo nei loro processi di valutazione degli affidamenti alle imprese e, soprattutto, comunicassero tali criteri agli imprenditori e ai manager delle imprese finanziate dedicando, quando possibile, anche qualche tempo a discutere con loro tali criteri.

Una riflessione specifica deve poi essere svolta con riferimento alle società a partecipazione pubblica. A livello statale la direttiva ministeriale numero 14654 del 24 giugno 2013 adottata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze ha definito più stringenti requisiti di onorabilità e professionalità dei candidati a posizioni di consigliere nelle società controllate e ha definito una procedura che prevede:

 

·         la pubblicazione a scadenza fissa sul sito del MEF delle posizioni in scadenza;

·         la valutazione dei profili ricevuti anche con il supporto di una società di consulenza di head hunting specializzata “per incrementare e rafforzare l’efficienza e l’imparzialità delle procedure di individuazione dei candidati e per garantire una comparazione efficace”;

·         l’intervento di un Comitato di garanzia costituito con carattere di stabilità e composto da personalità indipendenti di comprovata competenza in materia giuridica ed economica;[4]

·         la pubblicizzazione delle nomine e del curriculum dei nominati.

 

Questa direttiva, se ben applicata, può diventare una solida base per costruire sistemi di governo delle imprese a controllo statale più professionali, in grado di contribuire al miglioramento delle performance di tali aziende e di contrastare un uso improprio delle stesse. Questa direttiva dovrebbe diventare la traccia sulla base della quale costruire sistemi di selezione dei consiglieri di tutte le società controllate dagli enti locali e, più in generale, da parte della Pubblica Amministrazione.

Economia & Management è da sempre attenta al tema del governo delle imprese, come dimostrano, tra gli altri, i due articoli pubblicati sul numero 1/2014 sopra richiamati. Ma anche alcuni articoli pubblicati su questo numero della rivista consentono di apprezzare, per via diretta o indiretta, l’utilità di un buon sistema di corporate governance. L’articolo di Mazzotta e Veltri misura le relazioni tra alcune variabili di corporate governance (l’indipendenza, la dimensione, l’esistenza dei comitati interni al consiglio e l’indipendenza di tali comitati) e il costo del capitale di tutte le società quotate nella Borsa Italiana per il 2009, a esclusione del settore finanziario. I risultati indicano che le aziende meglio governate godono di una riduzione statisticamente significativa del costo del capitale che il mercato applica loro rispetto ad aziende debolmente governate, a parità di esposizione al rischio di mercato. L’articolo di Maria Cristina Arcuri presenta uno studio sull’offerta delle SGR operanti in Italia e sulla relazione tra variabili di corporate governance, tipo di fondi offerti dalle SGR e risultati. Arcuri conclude: “i risultati ottenuti inducono a ritenere che il perseguimento di una migliore struttura di governance sia auspicabile soprattutto, alla luce degli interessi coinvolti, nel contesto dell’asset management. Ciò al fine di contribuire alla piena ripresa del settore e di contrastare il calo di fiducia manifestato dagli investitori”. Almeno altri due articoli pongono indirettamente il tema del governo delle imprese, con particolare riferimento alle imprese di più piccole dimensioni. Il caso Italia Independent riepiloga la storia di un’azienda che, a pochi anni dallo start-up, è stata quotata alla Borsa di Milano. Per procedere alla quotazione l’azienda ha dovuto mettere a punto un sistema di governo idoneo, a dimostrazione che anche le aziende più piccole possono utilizzare la corporate governance come una leva per ottenere un vantaggio aziendale. Un altro caso presentato in questo numero, quello della Ghelfi Ondulati, riporta una bella relazione scritta dal manager non familiare di recente nominato, dopo un lunghissimo travaglio, direttore generale dell’azienda. Ciò può essere interpretato come un primo passaggio verso un sistema di governo dell’azienda meno legato alla proprietà. Aprire la gestione delle imprese a controllo familiare a figure non familiari può aiutare gli imprenditori ad apprezzare il contributo di terzi e li può portare – ci auguriamo in tempi non lunghissimi – a valutare anche l’apertura del consiglio di amministrazione al contributo di imprenditori, manager e professionisti “criticamente costruttivi”.

1

Pur consapevole che per sistema di governo si debba intendere un insieme di attori, organi, processi, relazioni ben più ampio del solo consiglio di amministrazione, in questo articolo ci si concentra su tale organo, data la sua rilevanza in ogni sistema di governo.

2

In tema si veda Minichilli A., “Dieci anni di corporate governance. Cosa sappiamo, e cosa no, sul governo delle imprese”, Economia & Management, n. 1, 2014 e il 2013 Report on Corporate Governance of Italian Listed Companies pubblicato dalla Consob nel novembre 2013.

3

Marra A., “CdA e qualità degli utili. Un’analisi empirica nel panorama italiano”, Economia & Management, n. 1, 2014, p. 91.

4

Purtroppo il decreto non prevede che tali personalità abbiano anche una competenza manageriale.