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2014/1
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Scarica articolo in PDFPer dribblare anche i lampioni basta un pallone in mezzo alla strada. I pali sono disegnati sul muro e le macchine parcheggiate ispirano un dribbling. In casa le gambe del tavolo diventano la porta e una pallina da tennis predilige i vetri della finestra e i soprammobili sempre troppo fragili. Meno è lo spazio e maggiore è la fantasia, fino a quando arriva mio padre che in veste di arbitro dichiara chiusa la partita.
Adesso i campi da gioco sono veri ma a pagamento e i bambini si sentono dei campioni in erba. Ogni anno in Italia cominciano a giocare al calcio trecentomila ragazzini. Guardano al pallone come a una sfera di cristallo. D’accordo, non puoi bruciare i sogni, ma neppure alimentare le illusioni. A sedici anni restano solo in settantamila, ma neppure questi devono illudersi. In serie A giocano solo cinquecento giocatori. Se a ogni calciatore concediamo un ciclo di vita di dieci anni significa che, annualmente, fatta la tara degli invadenti stranieri, entrano nella massima categoria venticinque nuovi giocatori italiani. Due al mese. Per questi privilegiati è come vincere al totocalcio.
I genitori hanno sempre delle delusioni alle spalle e sposano volentieri i sogni dei figli. Arrivano sugli spalti più agguerriti dei giocatori in campo. Se un ragazzo di dieci anni non passa la palla al compagno reputato un genio dai genitori, a partita finita la mamma strattona il colpevole e il padre lo schiaffeggia. C’è di peggio. A un allenatore della Primavera di serie A un giorno si presenta la mamma di un ragazzo, esigendo che il figlio faccia carriera. Attratto dal pallone, a quattordici anni ha smesso di studiare e suo marito è convinto che frequenti la quarta scientifico. A questo punto la proposta della donna è agghiacciante. Pur di raggiungere a qualunque costo il risultato desiderato, si dichiara disposta a dopare il figlio.
Con Antonello Valentini, direttore generale della FIGC, da tempo stiamo immaginando un intervento sui giovanissimi calciatori, approfittando dei ritiri a Coverciano. Il programma è facile da stilare. Basta trovare mezz’ora per attirare la loro attenzione sulla prospettiva atipica che li attende, perché i calciatori vicini al successo vivono due vite e due sogni successivi. Il primo riguarda la carriera di natura agonistica che si prospetta oramai credibile e il secondo concerne il dopo carriera, quando saranno pensionati a soli trent’anni. Chiarito questo, mi rendo disponibile a incontrare individualmente chi lo desidera, subito o più tardi. Magari sono pochi, forse uno solo. Lavoro così da quando, ancora giovane, a Libreville, la capitale del Gabon posta sull’Atlantico, una mareggiata ha spinto sul litorale migliaia di pesci che boccheggiano. Un africano comincia a ributtarli nell’acqua, con pazienza, uno alla volta. Sorridendo gli faccio notare che il suo lavoro mi sembra inutile, visto che i pesci sono migliaia e stanno morendo. Lui ne prende uno, me lo agita davanti agli occhi, lo getta ancora vivo nell’acqua. “Per questo pesce – mi dice – il mio gesto non è inutile.” È stato per me un grande maestro perché mi ha insegnato che il mondo migliora solo se salvi una persona alla volta.