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09/04/2025 Donato Masciandaro

Trump, la finanza e il vaso di Pandora

L’amministrazione Trump riapre il vaso di Pandora della finanza, rilanciando una deregolamentazione che intreccia cripto-attività, protezionismo e ritorno della finanza strutturata. Con il Genius Act si punta a legittimare gli stablecoin, sottraendoli in parte al controllo federale, mentre si cerca di impedire alla FED di emettere dollari digitali. Intanto Wall Street riscopre l’ebbrezza degli ABS, in un clima di memoria corta – “La grande scommessa” non vi dice niente? – e appetito di profitti facili. Eppure, l’innovazione senza garanzie pubbliche riduce la trasparenza e aumenta l’opacità sistemica: una combinazione che richiama pericolosamente i meccanismi che precedettero la crisi del 2008. E così, mentre le sirene del rendimento cantano di nuovo, la tanica nera attende soltanto la prossima scintilla.

Il presidente statunitense Donald Trump verrà ricordato (anche) per aver (ri)aperto il vaso di Pandora finanziario? Sono almeno due le ragioni per cui questa eventualità deve essere considerata: le cripto monete e la finanza strutturata.

Partiamo dalle cosiddette cripto monete. Da quando la Casa Bianca ha un nuovo inquilino, il valore degli scambi delle cripto attività finanziarie non hanno fatto altro che salire. Fin dallo scorso agosto, quando era “solo” un candidato alla presidenza, a Donald Trump è associata la roboante dichiarazione di voler far diventare gli Stati Uniti “la capitale mondiale delle cripto valute”. Alle parole sono seguiti i fatti: in disprezzo alle più elementari regole sul conflitto di interesse, dallo scorso ottobre Trump ed i suoi tre figli hanno associato il loro nome ad un società – la World Liberty Financial – che investe in cripto attività.

Ora che Trump è divenuto per la seconda volta presidente, degli statunitensi, il senatore Bill Hagerty – definito un “MAGA warrior” per la passione con cui ha abbracciato le prese di posizione di Trump – ha presentato una proposta di legge per dare uno status legale alle cosidette monete digitali.

Le monete digitali sono quella categoria di cripto attività – gli “stablecoins” – i cui promotori privati sperano che le promesse elettroniche da loro emesse possano essere assimilate in tutto e per tutto a monete vere e proprie, facendo una promessa: il loro detentore, in ogni momento, può trasformarle a richiesta in dollari con assoluta certezza, perché esistono riserve finanziarie in attività tradizionali in grado di coprire qualunque richiesta.

C’è da credergli? Occorre ricordare che una moneta esiste quando tutti l’accettano, perché ciascuno è convinto che in ogni momento con essa può acquistare beni e servizi. La moneta ha un suo valore, che è basato su un’àncora. All’origine l’àncora era un bene fisico, come l’oro o l’argento, che ha un suo valore intrinseco, perché ha usi alternativi. Poi, dall’agosto del 1971 – quando il dollaro smise di poter essere convertito in oro – tutte le monete sono fiduciarie, nel senso che l’àncora è la fiducia in chi quella moneta la emette: lo Stato. Ma si può avere la stessa fiducia quando la moneta è emessa da un privato? La risposta è sì, se comunque c’è una garanzia statale. È il caso delle banche, e la garanzia è rappresentata dal fatto che sono sottoposte alla vigilanza della Banca centrale.

Ma si può avere la stessa fiducia quando si parla di moneta digitale? La risposta è no. Negli Stati Uniti le imprese private che offrono monete digitali – i due operatori più grandi sono Tether e USD Coin – oggi non sono considerate tali dalla legge. Infatti, a differenza delle banche, non sono controllate dalla FED. L’assenza di una garanzia pubblica si riflette sul loro valore.

Guardiamo i dati. Le monete digitali, rispetto alle altre cripto attività, tipo il bitcoin, dovrebbero avere un plusvalore rappresentato dalla maggiore credibilità della sua promessa di conversione. Se utilizziamo come metro del valore di una cripto attività la sua capitalizzazione, i dati, allo scorso 6 febbraio, mostrano che le due principali monete digitali private non mostrano alcun plusvalore; le due promesse digitali sono per capitalizzazione rispettivamente al terzo ed al settimo posto, per non parlare delle altre monete digitali, che ritroviamo dal venticinquesimo posto in giù.

Ma il senatore Hagerty ha deciso di fare un regalo alla lobby dei produttori privati di cripto finanza, a cui appartiene anche la famiglia Trump, presentando un progetto di legge di legalizzazione delle piattaforme di offerta di promesse monetarie. Il progetto del senatore è stato battezzato, con un eccesso di modestia, Genius Act (Guiding Establishing National Innovation US Stablecoins).

Se tale progetto divenisse legge, tali piattaforme – in particolare le più grandi, con un volume di emissione maggiore di dieci bilioni di stablecoins – verrebbero sottoposte al controllo della FED. La FED dovrebbe monitorare la credibilità della promessa di pagamento, attraverso un controllo mensile sulla consistenza e sulla qualità delle riserve in liquidità tradizionale detenute dagli emittenti privati. Gli emittenti più piccoli eluderebbero invece la regolamentazione federale, e sarebbero invece controllate dalle autorità di ciascuno dei cinquanta stati dell’Unione.

La ciliegina sulla torta è il parallelo progetto dell’amministrazione Trump di impedire alla FED di emettere dollari digitali. La lobby ringrazierebbe di cuore, perché dare lo status di moneta agli stablecoin è ingiustificabile sul piano macroeconomico, visto che, a differenza delle banche, non creano credito. Ed i rischi di instabilità finanziaria? Tether ha già avuto problemi con l’attuale controllore, la SEC, con l’accusa di falso in bilancio. Niente paura: il presidente Trump ha già proceduto a cambiare il vertice della SEC, ritenuto troppo severo nei confronti delle cripto attività. In ogni caso, a pagare i costi di un fallimento, o peggio di una crisi finanziaria, sarebbero solo i cittadini statunitensi. Nella speranza di non ripetere il 2008, quando il contagio divenne mondiale.

Stesso discorso può essere fatto per la cosiddetta finanza strutturata, riassunta dall’acronimo ABS, che Wall Street è tornata vigorosamente ad alimentare.

I fatti: grande è stata l’attenzione che i media internazionali hanno riservato ad un evento avvenuto a Las Vegas alla fine di febbraio, vale a dire la riunione annuale dell’associazione della finanza strutturata. La ragione? Il numero dei partecipanti – arrivati a diecimila – a rappresentare un settore che ci si aspetta muova quest’anno oltre trecento miliardi di dollari, rinverdendo i fasti di un appuntamento immortalato esattamente dieci anni fa nel film “La grande scommessa”.
Quel film che raccontava la storia emblematica di alcuni investitori professionali, convinti fin dal 2005 che le magnifiche sorti e progressive dell’intreccio tra i mercati mobiliari ed immobiliari, che tutti – non solo negli Stati Uniti – stavano in quel momento cavalcando, sarebbero alla fine sfociate in un crollo dei relativi prezzi e valori; avevano ragione, poiché la loro intuizione si riflesse positivamente sulle loro fortune individuali, mentre l’economia mondiale sprofondava in una crisi finanziaria, che poi sarebbe diventata la peggior recessione economica dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Ed allora è bene ricordare cosa accade, e perché accade.

Definiamo finanza privata strutturata quel comparto del mercato in cui scambiano obbligazioni che sono garantite da attività, reali e/o finanziarie, attribuibili a soggetti privati; la garanzia pubblica, quindi, è assente. Cosa accade negli Stati Uniti negli anni che precedettero la Grande Crisi? Sulla tolda della FED, dal 1987 al 2006, campeggiava Alan Greenspan, venerato da Wall Street, che lo omaggiava con i soprannomi di “The Wizard”, oppure “The Maestro” – caduti ovviamente nel dimenticatoio all’indomani del tracollo del 2008 – per la sua strategia di politica monetaria e finanziaria. Dal lato della politica finanziaria, si scelse una aggressiva deregolamentazione, basata su un sinallagma per cui il lassismo regolamentare aumenta l’innovazione, che a sua volta produce un sistema sempre più complesso ed interconnesso, che è però al contempo più efficiente e – udite, udite, è una dichiarazione di Greenspan del 2002– anche più resiliente. La volgarizzazione di tale sinallagma può essere “Più debito per tutti”. Ma, perché la strategia del debito sia massimamente efficace, occorre che i tassi siano stabilmente bassi. Il lassismo finanziario deve essere accompagnato da quello monetario. Il cerchio si chiudeva, rendendo Wall Street una calamita per i capitali di tutto il mondo. La finanza strutturata crebbe esponenzialmente: ABS diventò una parola magica: i bassi tassi rendevano sempre meno appetibili i titoli di stato, e l’appetito per il rendimento della domanda, unito ad una sistematica incapacità di prezzare il rischio – per incompetenza o delinquenza – che era stata resa possibile dal lassismo finanziario, fece tutto il resto, appena i tassi dovettero tornar normali.

Quali sono state le lezioni che quella prima ondata di ABS ha lasciato?

Si riassumono in un monito facile da ricordare: quando la finanza diventa una tanica nera, qualunque fiammifero può divenire la miccia fatale. Traduzione: una industria finanziaria che diviene sempre più grande, interconnessa e complessa è endemicamente opaca; ma l’opacità si riflette sulla capacità di distinguere e prevedere la distribuzione del rischio, sia a livello individuale che a sul piano sistemico; la probabilità di dissesti, singoli e/o sistemici, si alza.

Il trauma della Grande Crisi costrinse a ripensare sia il disegno della politica finanziaria, che quello del suo rapporto con la politica monetaria. Primo: fu evidente che la politica prudenziale andava non solo migliorata, ma anche integrata con interventi strutturali: l’assunzione del rischio non va solo calibrata, ma, se serve, anche vietata. Secondo: le politiche monetarie eccessivamente espansive riducono l’efficacia delle politiche prudenziali.
Occorre fare attenzione: qualcuno sostiene ad esempio che la miglior politica monetaria per accompagnare il protezionismo del presidente Trump sia una espansione monetaria.

Ne è un esempio emblematico un recente lavoro di due economisti della FED – che ovviamente non può essere attribuito alla Banca centrale – che offre una giustificazione teorica al connubio tra protezionismo e lassismo, partendo da una presunta miopia dei cittadini. I cittadini incorporerebbero nelle loro scelte una visione solo parziale degli effetti macroeconomici del protezionismo commerciale, non considerando che i maggiori introiti statali derivanti dalle tariffe stesse potrebbero essere correlati – ed il condizionale è solo di chi scrive – ad un miglioramento del benessere complessivo del Paese. Per cui, il protezionismo tariffario dovrebbe essere accompagnato e rafforzato da una politica monetaria espansiva.

Insomma, e tornando alla finanza strutturata, il ritorno degli ABS è una buona notizia solo se non si dimenticano le dolorose lezioni del passato. Ma i decenni sono passati, la memoria si riduce. Lassismo finanziario e monetario possono esser sirene dal canto seducente. Ma mortale.


Per saperne di più:

• Bertaut C., Pounder DeMarco L., Kamin S., Tyron R., 2012, ABS Inflows to the United States and the Global Financial Crisis, Journal of International Economics, 88, 219-234.
• Bianchi J., Coulibaly L., 2025, The Optimal Monetary Policy Response to Tariffs, NBER Working Paper Series, n.33560.
• Eichengreen B. and Mitchener K.J. (2007), The Great Depression as a Credit Boom Gone Wrong, BIS Working Papers, Bank for International Settlement, n.137.
• Heilbroner, R. L., 1989, Behind the veil of economics: Essays in the worldly philosophy. WW Norton & Company.
• Miran S., 2024, A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System, Hudson Bay Capital, November.
• James S., Quaglia, L., 2025, Banks and the Noisy Geopolitics of Big Tech Regulation in Europe, Competition and Change, forthcoming.
• Jordà O., Schularick M., Taylor A.M., 2010, Financial Crises, Credit Booms, and External Imbalances: 140 Years of Lessons, NBER Working Paper Series, n. 16567.
• Reinhart C.M., Rogoff K.S., 2014, Recovery from Financial Crises: Evidence from 100 Episodes, American Economic Review, 104(5), 50-55.

 

Donato Masciandaro è Professore di Economia Politica presso l’Università Bocconi, dove è titolare della Intesa Sanpaolo Chair in Economics of Financial Regulation. Dal 1989 scrive sul Sole24Ore. Dal 2005 per Economia & Management riprende e sviluppa i commenti e le analisi pubblicate sulle pagine del quotidiano economico-finanziario. Le idee espresse in questo articolo sono personali e non riflettono la posizione che l’autore occupa stabilmente in istituzioni accademiche e temporaneamente in istituzioni pubbliche.


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