Cult

16/11/2020 Paola Dubini, Alberto Monti

Che cosa ne sarà del mondo dello spettacolo?

Secondo l’ultimo annuario della Siae, le perdite di fatturato registrate nell’ultimo anno dal mondo dello spettacolo ammontano a 847 milioni di euro. Un dato molto preoccupante sia perché colpisce un settore con filiere molto fragili e caratterizzato da precarie condizioni lavorative, sia perché molte zone del Paese rischiano la desertificazione culturale, con conseguenze non solo sulla scena creativa, ma anche sulla qualità della vita sociale ed economica di molti cittadini. Nel timore che il settore possa incorrere in una ripresa a L, si guardano i numerosi tentativi di innovazione nei formati, nei canali, nei modelli di revenue.

Se c’è una cosa che il Covid-19 ci ha insegnato è che anche le organizzazioni che si occupano di cultura sono aziende, nel senso che anche per loro vige il problema di reperire le risorse necessarie per sopravvivere e continuare nelle loro attività. Anche quando sono a proprietà e gestione pubblica, il fatto di poter contare sulla copertura dei costi di personale non esime chi le governa dal prendere decisioni in merito alla configurazione più opportuna dei processi, agli investimenti necessari e ai disinvestimenti meno dolorosi e impattanti sulla continuità e sul valore complessivo generato.

Non dovrebbe dunque stupirci, ma dovrebbe farci riflettere, la decisione presa dal MoMA lo scorso aprile di terminare i contratti in essere con i collaboratori dei servizi educativi[1]; oppure quella del Brooklyn Museum di vendere all’asta 12 opere per coprire le perdite di gestione[2], decisione a cui è seguita una serie di operazioni analoghe di deaccessioning[3]; o, ancora, quella del Metropolitan Opera di non riaprire per la stagione 2020/2021[4]. Dovrebbe farci riflettere anche la decisione dei musei civici di Venezia di riaprire al pubblico dopo il primo lockdown, il 31 luglio scorso, rispetto a quella degli omologhi romani che hanno aperto fra il 19 maggio e il 2 giugno.  Si tratta di decisioni che hanno – oltre che un ovvio significato economico – anche un valore politico, culturale e simbolico, ma che sono pesantemente condizionate dalle risorse disponibili. Dal punto di vista dei policy maker, non dovrebbe stupirci, ma dovrebbe farci riflettere, la reazione di tanti al dpcm di ottobre relativo alla chiusura di cinema e teatri, nonché i diversi appelli e le molte riflessioni di studiosi e operatori della cultura sulle diverse dimensioni della cultura per la nostra società[5].  

In questo quadro, la pubblicazione dei dati della Società Italiana degli Autori ed Editori (Siae) dell’annuario dello spettacolo 2019 e il confronto fra i dati relativi al primo semestre 2020 con quelli del primo semestre del 2019 (Tabella 1), da un lato ci permette di cogliere appieno la dimensione degli effetti della prima ondata di lockdown su questi settori, e dall’altro di immaginare le implicazioni che una crisi così dura potrà avere nel prossimo futuro sull’economia e sulla società.  

Com’è noto Siae è la principale collecting society a livello nazionale e, a differenza degli omologhi internazionali, rappresenta e raccoglie i diritti maturati dagli artisti e dagli editori che operano in un’ampia varietà di settori e di canali: cinema, musica, editoria, teatro, sport, mostre, concerti, discoteche, circhi, parchi a tema, televisione, streaming. I dati pubblicati si riferiscono agli spettacoli dal vivo, pesantemente colpiti dalle limitazioni alla circolazione collegate alla pandemia; la granularità dei dati è tale da consentire ragionamenti a livello sia di settore sia di territorio.

Tabella 1 - Variazione del numero di spettacoli, ingressi, spesa al botteghino e spesa del pubblico 1 semestre 2020 rispetto al 1 semestre 2019.

Cattura

Fonte: SIAE, Annuario dello spettacolo 2019

 

La prima cosa da considerare è che il 2019 è stato un anno di crescita rispetto al precedente in tutti i comparti, anche se – dalla crisi del 2008 a oggi e leggendo i dati a livello territoriale, oltre che a livello nazionale – si assiste a una progressiva riduzione nella varietà dell’offerta (in termini di numero di spettacoli e di operatori), e nel numero di comparti significativi su base territoriale. Quello che stava accadendo già prima dello scoppio della pandemia da Covid-19 era un progressivo abbandono dei territori più piccoli e meno popolosi e una tendenziale riduzione progressiva di varietà. Che dire ora di fronte a variazioni negative così imponenti? Per carità, nel primo semestre 2020 ci sono stati comunque più di 24 milioni di ingressi al cinema, 23.000 incontri sportivi in presenza, 428 milioni di euro di incasso al botteghino e oltre 654 milioni di euro spesa del pubblico. Ma questi risultati sono stati registrati in massima parte nei mesi di gennaio e febbraio; e il dato di giugno su giugno mostra cali che oscillano fra il -65 per cento per gli spettacoli viaggianti al -98 per cento dei ricavi da botteghino per lo sport.

La perdita di fatturato (in filiere molto fragili dal punto di vista della numerosità delle professionalità coinvolte e delle spesso precarie condizioni lavorative) è di 847 milioni di euro; si tratta di fatturato bruciato. Non ci aspettiamo una ripresa a V; ci auguriamo che sia a K, temiamo che sarà a L. In ogni caso, ci aspettiamo che le zone del Paese a desertificazione culturale si allarghino in modo notevole, depauperando non solo la scena creativa, ma la qualità della vita sociale ed economica di molti cittadini. Questo sarebbe un vero disastro per tutti i settori, oltre che per la qualità della vita civile. E il costo per rendere appetibile, vivace e attrattivo un territorio che si è desertificato è enorme. Per questo motivo, guardiamo con grande attenzione ai numerosi tentativi coraggiosi di innovazione profonda nei formati, nei canali, nei modelli di revenue, nella convinzione che il beneficio di una ripresa in questi settori sia beneficio anche collettivo. 

 



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