Cult

21/10/2020 Paola Dubini

Sostenere la «cultura di prossimità» ora più che mai

Il finanziamento alle organizzazioni culturali va considerato come un investimento sulla qualità di vita delle persone e come sostegno al territorio. In questi difficili mesi di pandemia, i classici erogatori di risorse economiche – enti pubblici, fondazioni di origine bancaria, famiglie mecenati, imprese – devono più che mai porsi il tema di chi sostenere. Per farlo, è necessario seguire alcuni principi guida utili a rilanciare un settore fondamentale per la nostra società.

Sappiamo che molte organizzazioni culturali sono intrinsecamente fragili: poco capitalizzate, molto dipendenti dalle dinamiche del circolante, talvolta autoreferenziali e troppo di nicchia. Sappiamo bene che le organizzazioni culturali – in particolare quelle «di prossimità» come teatri, musei, biblioteche, enti del terzo settore con vocazione prevalentemente locale e finanziati su base locale – stanno attraversando un periodo molto difficile dal punto di vista economico. Sappiamo infine che sono in ottima compagnia: a parte pochi settori e pochissime imprese che stanno traendo grandi benefici economici dalla soddisfazione dei bisogni immediati dei consumatori, questi mesi di pandemia sono stati difficili per molte aziende e famiglie, molti territori, moltissimi enti no profit. E se il 2020 bene o male chiuderà per alcuni con perdite relativamente contenute grazie a una serie di interventi di emergenza, le prospettive per il 2021 non sono rosee. In piena Covid fatigue (che secondo l’OMS riguarda il 60% della popolazione mondiale), tutte le organizzazioni devono ripensare ai loro investimenti e alle loro priorità.

In questo contesto, non è irrealistico immaginare che i classici erogatori di risorse economiche a livello territoriale (enti pubblici, fondazioni di origine bancaria, famiglie mecenati, imprese) siano i destinatari di numerose richieste di aiuto da parte di enti no profit filantropici, di ricerca, di assistenza. Così come da parte degli enti culturali. Mettendoci nei panni dei donor, in particolare delle imprese, possiamo immaginare un senso di imbarazzo e di leggero fastidio davanti a molte richieste di sostegno e la tentazione di voler «tirare i remi in barca», anche alla luce delle difficoltà che molti di questi stanno attraversando.

D’altra parte, occorre considerare due aspetti rilevanti:

  • la cultura è un bene di merito. Che si tratti di patrimonio culturale, e quindi del nostro passato, di spettacolo dal vivo, e quindi elemento che crea valore sociale e di intrattenimento, di biblioteche o di associazioni culturali sul territorio che lavorano con finalità di coesione e di educazione, è proprio nei momenti difficili che abbiamo più bisogno della loro presenza e della loro vitalità;
  • alcuni territori sono destinati a patire processi di desertificazione culturale. Per quanto il lavoro a distanza permetta alle persone di risiedere ovunque (a patto che ci sia una buona connessione internet), la scelta di dove vivere dipende ora da tanti fattori, fra i quali «la qualità della vita». Questa ha certamente a che fare con la sicurezza e la salute, ma anche con la possibilità di far sentire le persone «a casa», cioè in un luogo accogliente, piacevole, stimolante, educativo. La cultura è l’infrastruttura che rende i luoghi attrattivi in questa prospettiva, sia che si tratti di residenti, sia che si tratti di visitatori temporanei, sia che si tratti di turisti.

Penso quindi che il sostegno alle organizzazioni culturali vada considerato come un investimento sulla qualità del territorio; un investimento paziente, con ritorni magari non folgoranti, ma senz’altro di lungo periodo. Siccome le risorse sono scarse e le richieste molte, mi aspetto che il donor si ponga in questo momento più che mai il tema di chi sostenere. Propongo una check list, che si basa su una serie di confronti con operatori culturali e i loro sostenitori avuti in questi mesi in cui pattiniamo su un ghiaccio molto sottile.

  • La postura. Le organizzazioni culturali tipicamente lavorano in quattro direzioni: identità, socialità, educazione, attrazione. La pandemia ha significato per tutti operare in un sistema crescente di vincoli e con capacità produttiva pesantemente contingentata. Dopo la brusca fermata nei mesi del lockdown, la ripresa non ha significato solo un cambio di velocità, ma un cambio di atteggiamento: non si tratta più di ritornare a teatro in sicurezza, ma di ritrovare a teatro la misura di un nuovo modo di partecipare alla vita della città; non si tratta più di tornare a frequentare i musei in gita scolastica, ma di trovare i modi per cui la visita al museo o del museo sia integrata all’esperienza scolastica, cosicché il museo sia parte attiva di una comunità educante, in un momento in cui la scuola è oggetto della nostra massima attenzione. A parità di condizioni, suggerisco di cercare organizzazioni che si stiano ponendo il problema di come essere parte di soluzioni strutturali a problemi emergenti.
  • Organizzazioni resilienti e organizzazioni imprenditoriali. L’aggettivo «resiliente» è associato molto spesso alle organizzazioni culturali per indicare la loro capacità di reazione a uno choc. È tipico delle organizzazioni resilienti cambiare passo in fretta; è tipico delle organizzazioni imprenditoriali cambiare postura e farla cambiare a chi sta intorno. A parità di condizioni sosterrei chi è imprenditoriale, perché probabilmente si è posto da più tempo il tema di come essere sostenibile da un lato e di come essere parte integrante di un sistema che cambia dall’altro. Riconosciamo nel nostro teatro la capacità di innovare nella tradizione? Riconosciamo all’associazione culturale la capacità di essere contemporanea? Riconosciamo nel museo la capacità di conservare il fuoco senza adorare la cenere? Alla biblioteca la capacità di essere piazza, e non solo deposito di libri? Agli archivi e alle biblioteche la capacità di ingaggiare i propri pubblici nella produzione di nuova conoscenza? Se la risposta è si, è il momento di essere al loro fianco senza se e senza ma.
  • Organizzazioni attente al lavoro culturale. Sembra strano indicare fra i principi cardine delle organizzazioni culturali l’attenzione al lavoro culturale. Eppure, sono tante che – in genere per problemi di sostenibilità economica complessiva – considerano il diritto d’autore una tassa e non il compenso di una attività intellettuale, che impiegano persone con la promessa di remunerazioni che non arrivano, che non investono nelle produzioni o nei giovani. I tempi chiedono un comportamento responsabile da parte di tutti, anche delle organizzazioni culturali stesse.

Fra gli effetti della pandemia avremo – temo – un ridimensionamento nel numero delle organizzazioni culturali. In alcuni territori il rischio è che la riduzione di varietà e di qualità dell’offerta culturale sarà irreversibile. È responsabilità, ma credo anche interesse di tutti, fare in modo non solo che questo non accada, ma che le organizzazioni culturali più capaci possano aiutare a ricostruire un territorio che ci rappresenta, che ci aiuta a creare un futuro degno per i nostri figli e che sia attrattivo per chi ci abita, premessa indispensabile per essere desiderabile per chi lo voglia visitare. È il loro mestiere, è ora di dare loro fiducia, per senso di responsabilità collettiva, ma anche per interesse e opportunità.

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