Anticipazioni
Il nemico numero uno è la retorica
Il Diversity Management (DM), inteso come insieme di politiche, pratiche e azioni che, nell’ambito della gestione delle risorse umane, sono finalizzate a gestire la diversità dei lavoratori, ha iniziato il suo ingresso e la sua diffusione in Europa e in Italia a partire dalla fine degli anni Novanta attraverso sussidiarie di grandi società anglofone. Attualmente, complice soprattutto l’emergenza sanitaria che ha contribuito a dare visibilità alla scarsa attenzione al tema della diversità, il DM si è diffuso nella maggior parte dei Paesi industrializzati. La cosiddetta «She-cession»[1], che descrive il forte impatto che la pandemia ha avuto sulle donne sia a livello professionale sia sociale, ha destato molta attenzione mediatica contribuendo a riattualizzare il tema.
Il Dossier di questo numero di Economia&Management, di cui questo contributo rappresenta un’introduzione, offre l’occasione per fare un bilancio e riflettere sui nodi critici e le contraddizioni che questo approccio gestionale comporta.
L’etichetta e la legittimità
Il concetto di «gestione della diversità» nasce negli Stati Uniti come una sorta di riformulazione dei precedenti programmi di azioni positive che, fino agli anni Ottanta, erano principalmente finalizzati alla promozione dell’occupazione e allo sviluppo della carriera dei dipendenti neri (e, in seguito, di sesso femminile). Introdotto come un modo per garantire pari opportunità e per combattere la discriminazione razziale e di genere, tale concetto ha fatto il suo ingresso nelle imprese in maniera depoliticizzata. Questo ha determinato la progressiva sostituzione del concetto di pari opportunità con quello di «Diversity Management», la cui etichetta anglosassone è stata adottata anche in Italia, determinando contemporaneamente un cambio di prospettiva.
Combattere la discriminazione attraverso la promozione della parità di trattamento e offrire pari opportunità e lottare per l’uguaglianza era percepito, all’interno dei programmi politici, come fine a se stesso: un approccio più etico che fattuale. Il DM non si è completamente allontanato dal fine morale, ma l’uguaglianza ha assunto più lo status di un effetto collaterale desiderabile, rispetto all’enfasi data al previsto impatto economico. Un vantaggio dunque quantificabile con indici economico-finanziari, che si presume possa derivare da una corretta gestione di una forza lavoro che per ragioni sociodemografiche diviene sempre più diversificata.
La legittimità del DM risente ancora oggi di questa visione strumentale in base all’idea che l’eterogeneità della forza lavoro sia un antidoto al conformismo dei processi decisionali e quindi possa creare maggiore innovazione e una performance più elevata. Alcuni studi mostrano infatti che i gruppi eterogenei (sia in termini di competenze sia di composizione sociale) possano superare i gruppi omogenei nella risoluzione di problemi complessi, solo se la diversità viene canalizzata. Non è tanto la diversità di per sé che contribuisce a prestazioni organizzative più elevate, ma, piuttosto, una diversità adeguatamente gestita. Se gli studi mostrano gli impatti della diversità sulle variabili di clima – come la sicurezza psicologica, la soddisfazione lavorativa, il commitment affettivo ecc.[2] – è molto complesso quantificarne il valore economico, e forse non è neppure auspicabile attribuirgli una tale centralità. Dovremmo smettere di perseguire questi obiettivi se sapessimo che l’impresa non ha alcun vantaggio economico?
Negli ultimi anni l’etichetta D&I (Diversity&Inclusion) sta via via sostituendo, nella pratica manageriale, quella del DM. Il concetto di inclusione vuole recuperare la dimensione etica che il business case per la diversity, sotteso alla precedente definizione, aveva messo in secondo piano. Il recupero della legittimità morale si situa all’interno del discorso sempre più attuale e diffuso sulla responsabilità sociale dell’impresa (CSR) strettamente correlata all’idea che le organizzazioni hanno un qualche tipo di responsabilità verso gli individui, la società e l’umanità. Sotto l’etichetta della D&I ci si pone l’obiettivo di gestire i lavoratori secondo una prospettiva meritocratica: includere significa superare uno stato di disuguaglianza che si esprime principalmente in una diversa rappresentazione delle diverse dimensioni della diversità nei differenti ruoli e livelli gerarchici dell’impresa. Le posizioni di vertice nei Paesi occidentali, infatti, sono ancora prevalentemente occupate da manager eterosessuali, maschi, bianchi, senza figli, in buona salute[3]. Una possibile spiegazione è che hanno potuto più facilmente ottenere l’accesso alle risorse necessarie per competere alle posizioni di potere e prestigio, beneficiando di una reputazione stereotipata sulla loro miglior attitudine a ricoprire queste posizioni. Questa rappresentazione sociale dei luoghi di potere fa comprendere che, sotteso al concetto di diversità, c’è un modello culturale egemonico. Il confronto, quindi, non avviene tra i diversi gruppi sociali, ma in relazione al gruppo dominante, che diventa parametro di riferimento e norma per gli altri.
Includere significa pertanto mettere ciascun lavoratore nelle migliori condizioni (di clima e di risorse) per esprimere pienamente il proprio potenziale di competenze e attitudini, per svolgere al meglio il proprio lavoro e per poter così competere in base al merito. Questo approccio potrebbe funzionare come acceleratore per superare la non rappresentatività di certe categorie in certi ruoli e posizioni organizzative, offrendo al contempo nuovi modelli di ruolo e stili di leadership.
Tra essenzialismo e intersezionalità
Quando si parla di diversità è importante ricordare che, almeno concettualmente, ci sono un numero infinito di dimensioni della diversità. La diversità può includere qualsiasi dimensione (o categoria) in base alla quale le persone condividono (o al contrario differiscono) una manifestazione specifica di quella dimensione l’uno con l’altro. Per rendere intellegibile e concretamente gestibile questo potenziale infinito di caratteristiche identitarie dei lavoratori, Plummer[4] ha coniato l’espressione «Big 8», a sottolineare che la diversità può essere ridotta a otto dimensioni: età, etnia/nazionalità, genere, capacità mentali/fisiche, ruolo/funzione organizzativa, razza, religione e orientamento sessuale.
Tale semplificazione, necessaria alla comprensione delle molteplici sfaccettature della diversità, rischia di essere adottata in modo semplicistico ed ecumenico. In primis tale categorizzazione nasce in America e quindi potrebbe non essere valida in altri contesti culturali; infatti, a seconda dello specifico contesto socioculturale, alcune e non altre dimensioni potrebbero essere cruciali per i processi di inclusione/esclusione. Inoltre, sia all’interno del discorso accademico sia nella pratica della gestione della diversità, ci si concentra su poche categorie: il genere in Europa, l’etnia e il genere negli Stati Uniti.
Una ragione per questo restringimento del focus può essere trovata nel diverso potere dei vari movimenti sociali che promuovono l’inclusione di specifiche dimensioni in specifici contesti nazionali; inoltre, le aziende spesso preferiscono partire dalla categoria numericamente più presente e visibile. La prassi di dare priorità a determinate dimensioni, se apparentemente più efficiente dal punto di vista gestionale, sottende un potenziale effetto negativo derivante da pregiudizi, resistenze, conflitti che possono sorgere sia in chi è escluso da questi programmi («promuovono lei solo perché è una donna») sia dagli stessi beneficiari («non voglio partecipare a un programma per sole donne»). Inoltre, questa semplificazione rischia di produrre categorie essenziali: le persone sono viste come astratte, la categoria diventa predittiva di determinati bisogni, preferenze, comportamenti; si perde di vista la complessità di ciascuna categoria e, all’interno di queste, si enfatizza l’omogeneità più che la differenza. Infine, non dobbiamo trascurare che il focus su alcune dimensioni e non altre sottolinea che solo queste sono accettate come rilevanti o legittime.
Il genere
Prendiamo come esempio la categoria del genere. Quando si parla di uomini e donne, si distingue tra sesso e genere per differenziare l’aspetto culturale e socialmente costruito dell’essere un uomo o una donna (cioè il genere) e il suo aspetto corporeo e biologico. Questa categorizzazione ha guidato per molto tempo una costruzione essenzialmente binaria del maschile e femminile e, sebbene il concetto di genere lasci aperta la possibilità di mettere in discussione la dicotomia «maschio contro femmina», nella pratica è accaduto di rado. La dicotomia ha sollevato resistenze e ha inibito la collaborazione fra gli uomini e le donne e la costruzione di un contesto in cui il maschile e il femminile potessero integrarsi. Inoltre, tale contrapposizione è stata rafforzata dal fatto che le iniziative di genere spesso mirano a sostenere le donne «biologiche» soprattutto nel loro percorso di sviluppo nella gerarchia organizzativa, il che sottende la necessità di ridistribuire le risorse tra i due sessi biologici. La netta distinzione tra uomini e donne, tra femminilità e mascolinità, può essere altresì considerata come una delle ragioni dell’emarginazione ancora prevalente di altri dimensioni che riguardano l’identità di genere. L’intersessualità e il transgenderismo sono stati inseriti nella categoria LGBTI (lesbica, gay, bisessuale, transgender intersessuale); ma poiché non sono orientamenti sessuali, questa categorizzazione ha costruito il loro status di «trascurati» all’interno di una categoria di per sé subordinata a quella di uomo/donna. Inoltre, un approccio dicotomico alle categorie non permette di leggere l’intersezionalità fra le categorie. Il concetto di intersezionalità tiene conto della complessità di ciascuna persona poiché nella realtà un uomo non è mai solo un uomo e una donna non è mai solo una donna; lui o lei hanno anche una certa età, pelle, colore, origine, lingua madre, orientamento sessuale, identità di genere differenti e così via. Anche se ci sono differenze tra queste dimensioni in termini di visibilità e rappresentatività all’interno di una specifica forza lavoro, ciò non dovrebbe modificarne il loro ascolto e la loro presa in carico. Senza questa lente di osservazione le identità vengono concettualizzate come realtà oggettive, stabili, chiaramente definite, facilmente misurabili. Ingabbiando però le persone in un’unica categoria si genera il rischio di riprodurre quegli stessi pregiudizi e asimmetrie che si vorrebbero contrastare. Nella realtà le disuguaglianze si sovrappongono e si condizionano a vicenda, producendo altre disuguaglianze. Nell’ambito del discorso sul genere, per esempio, le politiche e le pratiche di DM sono state per lo più indirizzate a sostenere la carriera delle donne bianche, del ceto sociale medio, istruite in posizione di privilegio nell’ambito della categoria donne, e poco ci si è occupati delle donne lesbiche, delle donne immigrate, delle donne anziane, delle donne malate ecc. Un approccio che ha incoraggiato le singole donne in carriera a concentrarsi su se stesse e le proprie aspirazioni, perdendo però di vista i temi rilevanti per tutte le altre donne e per gli uomini che, anziché sentirsi esclusi o minacciati, avrebbero potuto condividere e partecipare. Questo approccio ha prodotto conflitti e resistenze di ritorno: l’invidia e la rivalità tra donne; il sentimento di rifiuto e la negazione del tema da parte degli uomini («sono problemi da donne»; «trattiamo tutti allo stesso modo, non è vero che escludiamo le donne anche perché sono mediamente più brave e competenti»).
Comprendere la diversità con la lente dell’intersezionalità rende manifesto che i lavoratori spesso hanno contemporaneamente posizioni di privilegio ed esclusione e aiuta pertanto a superare la gerarchizzazione fra le categorie delle diversità e, con essa, la sottostante implicita gerarchizzazione delle disuguaglianze. Un approccio più intersezionale potrebbe incoraggiare le organizzazioni a considerare più dimensioni della diversità della forza lavoro e a comprendere con maggiore profondità i molteplici meccanismi di inclusione ed esclusione che possono contemporaneamente inibire la costruzione di un clima di lavoro inclusivo. Le organizzazioni rifuggono spesso da questa lettura vuoi per una logica efficientista dei piccoli passi («concentro le risorse e i programmi su ciò che è immediatamente visibile e urgente; devo portare evidenze in poco tempo»), vuoi perché la complessità spaventa, vuoi perché tale complessità viene spesso negata («non abbiamo questo problema, non abbiamo dipendenti intersessuali»).
La retorica della diversità
Il discorso sulla gestione della diversità e l’inclusione, sia nelle imprese sia nella società, è passibile di molta retorica che oscura e mette in secondo piano le difficoltà reali e i potenziali conflitti che la costruzione di una cultura inclusiva comporta.
Una sottile patina del «politicamente corretto» maschera ciò che accade concretamente nelle relazioni tra le persone che si confrontano con la diversità. Non ho ancora incontrato nessuno che si definisca apertamente contrario o contro l’inclusione. All’opposto, le persone si dichiarano aperte e neutrali senza ammettere l’inevitabile parzialità del proprio giudizio e le proprie rigidità. Difficilmente si è consapevoli dell’impegno cognitivo ma soprattutto emotivo che il confronto con la diversità comporta; un impegno necessario a elaborare quel sentimento di fastidio, o peggio di rifiuto, che si manifesta quando l’altro è portatore di gusti, preferenze, abitudini, idee e pensieri differenti. Accorgersi di questa ambivalenza tra accettazione verbale della diversità e resistenza emotiva, spesso inconsapevole, è un passo importante per scostarsi dall’adozione retorica del DM verso un’adozione sostanziale, dove alle parole e alle dichiarazioni corrispondano effettivi comportamenti e azioni inclusive.
La ragione di queste resistenze hanno sia radici psichiche che sociologiche. Sul piano piscologico, vanno ricondotte al processo di costruzione dell’identità (sia individuale sia collettiva). L’identità, per edificarsi, necessita di definire dei confini tra il sé e l’altro, il noi e loro. I confini delle identità hanno bisogno di essere difesi, pena la fragilità dell’identità e la sua dispersione. Le emozioni negative (il fastidio, la rabbia o la paura che proviamo) sono utili come segnale di allerta per proteggere l’identità. Ma se queste emozioni non sono consapevoli e non vengono conseguentemente elaborate, diventano il terreno fertile per la costruzione di pensieri e giudizi negativi verso chi è altro da sé. Questi giudizi, che vanno dal dissenso all’ostilità, sono la causa dei conflitti diretti (aggressione verbale, fisica; esclusione o discriminazione) o indiretti (segnali indiretti di disapprovazione, indifferenza, evitamento ecc.) che si sviluppano nelle relazioni personali e professionali. L’inclusione implica il riconoscimento dei confini dell’identità, la comprensione della loro funzione e la decisione di volerli mescolare, arricchire e integrare con quelli di altre identità, senza il timore di sentirsi sminuiti o indeboliti. L’inclusione viene spesso confusa con la tolleranza, ma nella tolleranza i confini permangono. Quando i confini diventano argini e poi trincee, i giudizi da parziali e discutibili, si assolutizzano. Ma è proprio la rigidità di questi argini a non permettere di cogliere la diversità e l’alterità come strumento di crescita e sviluppo individuale e sociale.
Sul piano delle motivazioni storico-sociali, è importante ricordare come la libertà culturale sia una tappa recente del progresso e dello sviluppo dell’umanità: essere in grado di scegliere la propria identità – chi si è – è la precondizione per vivere soddisfacendo il bisogno più elevato dello sviluppo umano, quello dell’autorealizzazione. Soddisfatti i bisogni di base legati alla sopravvivenza e alla sicurezza, le persone possono ambire alla libertà di professare apertamente la loro religione, parlare la loro lingua, celebrare la loro eredità etnica, esprimere la propria identità di genere senza timore del ridicolo o, peggio, della punizione o dell’essere esclusi e di non poter avere le stesse opportunità. Le persone, in questa fase dello sviluppo sociale, ambiscono a vivere senza doversi privare del bagaglio identitario e culturale prescelto e di poterlo esprimere nelle diverse relazioni che via via incontrano. Ed è questo bagaglio che deve essere inteso come una ricchezza e non come una minaccia per l’identità (individuale e collettiva).
L’ideologia dell’uguaglianza, se è stata storicamente determinante per superare la supremazia e l’egemonia degli Stati e delle culture occidentali, rischia nel contesto attuale di diventare un limite. «Non voglio essere scelta come donna ma come persona», è uno tra i pensieri ricorrenti che confonde il principio di uguaglianza, in base al quale si hanno gli stessi diritti e doveri, con l’uguaglianza delle identità. Quando parliamo di identità (individuale e collettiva) la diversità diviene un fattore intrinseco e pervasivo; complice il cambiamento sociale in atto vuoi a livello demografico – dai fenomeni migratori all’invecchiamento progressivo della popolazione, fino al crescente tasso di denatalità – vuoi del mondo del lavoro, vuoi di quello legislativo. L’ampliamento delle libertà culturali rappresenta dunque un obiettivo determinante per la società di oggi. Se da un lato le persone, per diventare cittadini di società eterogenee, devono liberarsi dalle identità rigide, dall’altro le istituzioni e le imprese sono chiamate a svolgere un ruolo politicamente attivo per creare le condizioni necessarie a garantire pari opportunità a tutti, a difendere i valori cosmopoliti della tolleranza e del rispetto dei diritti umani universali, a rimuovere le disparità sociali, culturali ed economiche.
Le sfide future
Le organizzazioni che sposano la gestione della diversità dovrebbero assumersi l’impegno di gestire e superare la discriminazione presente nei luoghi di lavoro . Ostacoli e pregiudizi culturali che non consentono politiche e pratiche gestionali sufficientemente personalizzate, consentendo così a tutti i lavoratori le stesse opportunità di accesso alle risorse (materiali e immateriali), dovrebbero essere rimossi al più presto. I dati sulla diffusione e l’adozione delle politiche e pratiche a supporto del D&I in Italia, purtroppo, non sono così incoraggianti[5]. Tuttavia, per proseguire con maggiore convinzione nel percorso di adozione ti pratiche inclusive è necessario:
- ricordare che la leva della convenienza non può essere l’unica dimensione da enfatizzare. Peraltro, non sempre la gestione alle diversità è immediatamente vantaggiosa. Altre leve possono essere abbracciate: responsabilità sociale, rilevanza della qualità della vita al lavoro, del benessere organizzativo, dell’innovazione, della libertà culturale;
- favorire iniziative che si strutturino attraverso una comprensione più sottile delle relazioni tra le persone e i gruppi di lavoro e che tengano quindi conto della specificità delle
culture nazionali e socio-organizzative, del contesto legislativo di riferimento, della specifica composizione demografica dei lavoratori, evitando di riproporre in modo acritico soluzioni sperimentate in altre realtà; - proporre una nuova concettualizzazione della diversità a favore dell’idea della pluralità delle differenze: siamo diversi l’uno dall’altro, ma siamo anche diversi da noi stessi in fasi diverse della vita. Le diversità si intersecano e generano molte sfumature, al di là delle categorie;
- incentivare un percorso di consapevolezza, di auto-riflessività individuale e collettivo che porti a mettere in discussione la rigidità del proprio modello identitario e culturale; è visibile che, soprattutto chi ha potuto accedere alle posizioni di potere organizzativo e sociale, tende a definire come univoco e preferibile per la maggioranza il proprio modello;
- abbandonare un approccio sporadico e basato sulla spinta individuale per adottarne uno strutturale che coinvolga la maggioranza dei lavoratori e che abbini l’adozione di politiche e pratiche di D&I ad azioni più ampie di promozione di un clima inclusivo.
Gli articoli del dossier approfondiscono queste tematiche analizzando aspetti che rientrano sotto l’etichetta «Diversità e inclusione», ma declinati in relazione al contesto italiano ed europeo.
Negli ultimi anni, nella letteratura manageriale è emersa la necessità di analizzare il modo in cui il tema prende forma nei diversi contesti; ugualmente, le stesse imprese si rendono conto della necessità di trovare modelli e politiche coerenti al contesto nel quale operano, poiché l’applicazione indiscriminata di progetti pensati per altri Paesi è causa di una perdita di efficacia dell’azione manageriale.
Pertanto, la scelta di trattare nel dossier specifiche dimensioni della diversità e il ruolo di certi attori è frutto della necessità di trovare delle risposte (o di generare delle domande) coerenti al nostro contesto.
Nel dossier si tratta anche, naturalmente, di questioni più generali, poiché alcune problematiche emergono con regolarità quando si parla del tema della discriminazione nei luoghi di lavoro.
Nella prima sessione del dossier, «Scenario e sfide», i primi due articoli affrontano il tema dell’inclusione secondo una prospettiva critica: Simonella si sofferma sull’effetto boomerang e sulle altre resistenze che si riscontrano quando si introducono politiche e pratiche a sostegno dell’inclusione; Basaglia ci guida a riflettere sul tema dei conflitti ricordandoci come la costruzione di un clima inclusivo non sia semplice poiché il processo per raggiungerlo può essere solcato da conflitti, tensioni e contraddizioni dovuti alla maggiore eterogeneità (sociale, culturale, anagrafica ecc.) dei lavoratori. Infine Profeta dibatte su come le politiche pubbliche a favore della parità di genere rappresentino un investimento indispensabile per la rinascita dopo la crisi della pandemia ed evidenzia il rapporto biunivoco che esiste tra politiche pubbliche come motore per la parità di genere e la leadership femminile che può essere a sua volta la promotrice delle politiche a favore della riduzione del gender gap.
Nella seconda sezione del dossier, «Imprese, società e diritto», gli articoli di Pulcher, Cuomo-Simonella, Monaci descrivono lo stato dell’arte di quelle dimensioni della diversità che meno di altre hanno ricevuto attenzione in relazione al tema della discriminazione nei luoghi di lavoro. In particolare, Pulcher riflette sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere richiamando l’attenzione al ruolo del sindacato, un attore per troppo tempo escluso dalla gestione della diversità nelle organizzazioni; Cuomo-Simonella si soffermano sul clima di diffidenza che si è costruita nei confronti dei lavoratori con disabilità che impedisce alle imprese di costruire percorsi di inserimento e di sviluppo efficaci; Monaci affronta il tema dei migranti e del lavoro proponendo una visione che va ben oltre quella della complementarietà, in base alla quale i migranti vengono impiegati in lavori low-skill, non più graditi ai lavoratori italiani.
Tre articoli sono invece dedicati al tema delle donne e della discriminazione di genere nel mercato del lavoro. Casarico affronta il divario di genere nelle retribuzioni evidenziando la necessità che le imprese adottino un sistema di reporting che generi una maggiore trasparenza della propria struttura occupazionale e di retribuzione in un’ottica di genere, così come avviene in altri Paesi europei; Saporito-Rota-Trinchero sottolineano come la motivazione sociale di servire il pubblico – invece di lavorare per il privato – sia il fattore principale di attrazione per le donne nelle amministrazioni pubbliche. Tuttavia, nonostante le donne siano la maggioranza, anche nella PA fanno carriera meno degli uomini. Galizzi fa chiarezza sul bilancio di genere, spiegando che cosa sia e come sia stato prevalentemente applicato fino a oggi nelle amministrazioni pubbliche. Un motore importante per una sua riattualizzazione potrebbe essere il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che lo ha inserito tra gli strumenti necessari per ridurre il divario di genere nel nostro Paese.
Dopo una breve ricostruzione storica del diritto antidiscriminatorio, Lorenzetti ne descrive luci e ombre evidenziando, da un lato, come questo corpus di norme non sottolinei, se non debolmente, le discriminazioni in forma intersezionale; dall’altro, come l’ordinamento italiano abbia proceduto alla trasposizione delle direttive europee senza alcuno sforzo di ricomposizione e coordinamento con la normativa italiana pre-esistente.
[1] «Donna e straniera: ecco chi paga la crisi da pandemia», lavoce.info, 10 giugno 2021; «Shecession, effetto Covid sull’uguaglianza di genere», Huffington Post, 10 febbraio 2021.
[2] A. Randel, E. Randela, B.M. Galvinb, L.M. Shorec, K. Holcombe Ehrharta, B.C. Chunga, A. Deana, U. Kedharnathd, «Inclusive Leadership: Realizing Positive Outcomes Through Belongingness and Being Valued for Uniqueness, Human Resource Management Review, 28(2), 2017, pp. 190-203; S.B. Choi, T.B.H. Tran, B.I. Park, «Inclusive Leaderrship and Work Engagement: Mediating Roles of Affective Organizational Commitment and Creativity», Social Behavior and Personality, 43(6), 2015, pp. 931-944.
[3] S. Basaglia, C. Paolino, Z. Simonella, «The last call. L’adozione del DM e l’insostenibile ritardo delle imprese italiane», Economia&Management, 2015-2, pp. 42-49.
[4] D.L. Plummer (a cura di), Handbook of Diversity Management: Beyond Awareness to Competency Based Learning, Lanham, MD: University Press of America, 2003.
[5] Basaglia, Paolino, Simonella, op. cit.; si veda anche «Il diversity management per le diversità LGBT+ e le azioni per rendere gli ambienti di lavoro più inclusivi», Istat, 2019.