Anticipazioni

19/12/2023 Fabrizio Perretti

La natura del cambiamento

In tempi di grandi mutamenti, ogni attore sociale può decidere se agire e parteciparvi – a favore o contro – o se esserne semplicemente spettatore in attesa di capirne l’esito (e, nel caso, adattarvisi). Di fronte alle sfide di oggi – cambiamento climatico su tutte – la responsabilità non può però ricadere solo sulle spalle dei singoli individui. Eppure le imprese tendono a reagire solo in base alle scelte dei loro clienti/consumatori o dei loro concorrenti, rallentando così il processo. Se la speranza è «il coraggio di perseverare quando vincere sembra difficile […] e quando il successo sembra inconcepibile», dobbiamo domandarci se le imprese siano effettivamente in grado di assolvere a tale compito. E se sia opportuno affidare a loro il ruolo di guide.

 

Affrontare il cambiamento è una condizione costante delle imprese. Non solo perché il mondo intorno a noi cambia incessantemente e le imprese devono decidere come porsi di fronte a nuove condizioni esterne. Ma anche perché siamo noi stessi a cambiare ed è sufficiente l’inevitabile ciclo di vita delle persone a modificare internamente le imprese. Persone nuove entrano in azienda, altre persone la lasciano e le persone che rimangono, solo per il semplice invecchiamento, cambiano anche loro con il tempo. È questo ritmo incessante a determinare i cambiamenti nella nostra società: il costante ricambio di nuove persone e quindi di nuove esperienze, di nuove idee, di nuove prospettive. Le imprese cambiano perché cambiano le persone.

Il cambiamento in sé non è oggetto di discussione. Le vere questioni sono la direzione e la velocità del cambiamento. Alcuni soggetti sono fonti del cambiamento, altri ne sono al seguito, altri ancora lo ostacolano. Ed è l’insieme e l’interazione di questi soggetti che le determinano entrambe. Ancora più importante è però capire da che parte stiamo: se decidere di cambiare quando nessuno lo ha ancora fatto, se cambiare dopo che altri hanno già abbracciato il cambiamento o se decidere di continuare come prima e di resistere alle pressioni esterne. Come nel caso dei movimenti sociali, anche nei confronti dei cambiamenti in generale possiamo decidere se agire e parteciparvi (a favore o contro) o se esserne semplicemente spettatori in attesa di capirne l’esito e, nel caso, adattarvisi.

Vi è un cambiamento la cui direzione e velocità sono purtroppo ormai note: si tratta del cambiamento climatico. Il riscaldamento globale è un fatto e sappiamo che solo l’uomo, oltre a essere la fonte del problema, può esserne la soluzione. Anche in questo caso vi è chi lo nega e chi lo riconosce e cerca di fare qualcosa di sostanziale. Vi è però anche chi semplicemente lo guarda da spettatore. Alcuni sostengono che questo atteggiamento passivo è la conseguenza di una paralisi da impotenza. Di fronte a forze immensamente più grandi di noi, che riteniamo di non poter fermare o di non riuscire a farlo in tempo, pensiamo che si possa solo assistervi e sperare di essere tra coloro che in qualche modo si salveranno dalle conseguenze più catastrofiche.

Vi è tutto un immaginario collettivo che ci ha già abituato a questa prospettiva. In questi decenni libri, film, serie televisive e videogiochi ci hanno infatti abituato a scenari apocalittici di distruzione e di morti viventi, in cui i protagonisti cercano di sopravvivere. Lo Stato è assente e la violenza rappresenta la principale forma di interazione. In tutte queste rappresentazioni, la catastrofe viene data per scontata così come la lotta per la sopravvivenza condotta da singoli individui o da piccoli gruppi o comunità. Il focus non viene cioè posto sulle azioni per evitare il collasso ma su come sopravvivere una volta avvenuto. L’invito implicito è di concentrare gli sforzi su questo secondo obiettivo, quando invece bisognerebbe mobilitarsi sul primo.

Per contrastare e rallentare il cambiamento climatico è necessario un cambiamento di paradigma. Come ci ricorda Rebecca Solnit[1], è necessario non cedere al pessimismo ma coltivare la speranza. Questo significa riconoscere l’incertezza del futuro e impegnarsi a cercare di partecipare alla sua creazione, sapendo che dobbiamo agire senza conoscere l’esito di queste azioni. È in questo senso che ne parla il drammaturgo Václav Havel: «la speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che vale la pena fare qualcosa a prescindere da come andrà a finire».

Nella nostra società questo cambiamento non può però essere lasciato ai singoli individui, e le imprese non dovrebbero reagire solo in seguito ai cambiamenti dei loro clienti/consumatori o dei loro concorrenti. Questo richiede infatti troppo tempo e non è detto che tali stimoli siano sufficienti. Se le imprese cambiano perché cambiano le persone, è anche vero che nel sistema capitalistico spesso la società cambia perché cambiano le imprese. Ma se la speranza è «il coraggio di perseverare quando vincere sembra difficile […] e quando il successo sembra inconcepibile», dobbiamo domandarci se le imprese siano effettivamente in grado di assolvere a tale compito. Lo speriamo. Ma, in fondo, dobbiamo forse domandarci se sia giusto sperarlo. Il punto cruciale è infatti capire se, come società, come persone, possiamo affidare le nostre speranze alle imprese.

Il dossier di questo numero è dedicato al settore automobilistico, un settore che ha cambiato profondamente la nostra società - la «macchina che ha cambiato il mondo»[2] - e che si trova oggi, più di altri, di fronte alla sfida del cambiamento climatico (e non solo). Sfida che impone un profondo cambiamento nei prodotti, nelle tecnologie, nelle filiere e nelle infrastrutture. Ed è proprio la centralità che ha sempre avuto questo settore – definito da Peter Drucker «l’industria delle industrie»[3] – che lo rende altrettanto interessante per comprendere se le imprese sono effettivamente all’altezza del compito e delle responsabilità richieste. Collegato al cambiamento climatico, ma dal punto di vista della conservazione e della sostenibilità delle risorse naturali, vi è il focus sull’agribusiness e sulla resilienza delle filiere del settore agroalimentare. Completa il numero l’ampio focus sullo sport, dove si intrecciano società e cultura, economia e imprese, in un rapporto che, anche in questo caso, è stato oggetto di profondi cambiamenti. Buona lettura!

 

Sempre in tema di cambiamenti, questo che state leggendo è il mio ultimo editoriale. Con questo numero termina infatti il mio mandato di direttore della rivista. Sono stati sei anni intensi e interessanti e spero di essere stato fedele agli obiettivi e all’indirizzo che mi ero proposto: analizzare e diffondere la cultura d’impresa, evitandone – come ci ha insegnato Claudio Dematté - toni celebrativi o trionfalistici, ma sempre con uno sguardo critico al mondo delle imprese perché – come ricorda lo scrittore Luciano Bianciardi in una delle sue opere – «la cultura non ha senso se non ci aiuta a capire gli altri, a soccorrere gli altri, ad evitare il male»[4].

Vorrei approfittare di questo commiato per ringraziare la Scuola di Direzione Aziendale, i colleghi del Comitato Editoriale, la casa editrice Egea e, soprattutto, tutti gli autori degli articoli e delle rubriche che hanno contribuito con i loro contenuti. Infine, un ringraziamento particolare alla collega Zenia Simonella, che mi ha aiutato nelle decisioni editoriali e nell’attività operativa in tutti questi anni.

È stato un viaggio lungo. È stato un viaggio intenso. E come tutti i viaggi importanti, è stato un viaggio che ci ha cambiati. Secondo Proust, l’unico vero viaggio non consiste nel cercare nuovi paesaggi, ma nell’avere occhi diversi per vedere ciò che ci circonda. Speriamo che il nostro sia stato un viaggio «vero» anche per i nostri lettori. Noi scendiamo qui, ma la rivista prosegue. Buon viaggio!

 



[1] R. Solnit, (2023), «Difficult is not the same as impossible» in R. Solnit, T. Young-Lutunatabua (eds.), Not Too Late: Changing the Climate Story from Despair to Possibility, Haymarket Books.

[2] J.P. Womack, D.T. Jones, T. Roos (1993), La macchina che ha cambiato il mondo, Milano, Rizzoli.

[3] P.F. Drucker (1946), The Concept of the Corporation, John Day.

[4] L. Bianciardi (1964), Il lavoro culturale, Milano, Feltrinelli.

 

Foto iStock / gremlin

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