Articolo 3
Il referendum, i giovani e quella strana idea di cambiamento
Ci troviamo ancora una volta a parlare di giovani, di elezioni e di lettura «identitaria» delle elezioni. Questa volta la situazione oggetto di analisi è rappresentata dall’esito del recente referendum costituzionale. In base ai dati raccolti dall’atlante politico di Demos per il quotidiano La Repubblica, il Sì è maggioritario solo nella fascia di popolazione con più di 65 anni (i cosiddetti baby boomers). In tutte le altre fasce di età, il No è nettamente maggioritario con un picco del 72 per cento di No relativamente ai giovani della generazione Y (persone tra i 25 e i 34 anni). Si tratta dei giovani che hanno iniziato, pienamente, il loro percorso all’interno del mercato e del mondo del lavoro e hanno imparato a loro spese quali sono le regole del gioco («stage dopo stage, magari senza retribuzione e/o rimborsi spese», come abbiamo già scritto a proposito dei giovani americani) e qual è il senso della parola flessibilità, che spesso fa rima con precarietà e che sta alla base della percezione di avere di fronte a sé un futuro economico-sociale peggiore rispetto a quello dei propri genitori. Questo mondo è già stato ampiamente descritto nel famoso libro di David Harvey del 1990 (ossia, 26 anni fa!) intitolato in italiano La crisi della modernità (riedito in italiano nel 2015 da Il Saggiatore). Per questi ragazzi, Reagan e il reaganismo, Thatcher e il thatcherismo e l’intero milieu neoliberista rappresentano un’ideologia vecchia. Nella società italiana e nelle imprese, si è andata diffondendo una visione «mitologica» della giovinezza e del cambiamento che ha banalizzato e sovrapposto concetti che sono teoricamente ed empiricamente differenti: cambiamento, innovazione, progresso, reazione, regresso. Il cambiamento e l’innovazione possono portare a un «pro-gresso» o a un «re-gresso»: dipende dal punto di vista e degli interessi in gioco. Per esempio, in un recente film di Michele Placido, 7 minuti, in una fabbrica viene proposto un cambiamento nell’orario di lavoro: ridurre la pausa di 7 minuti. Questo cambiamento può essere un progresso per i nuovi proprietari dell’azienda o un regresso per le operaie. Ciò che il risultato «identitario» del referendum dovrebbe insegnare alle imprese è che (1) come negli Stati Uniti, i giovani lavoratori hanno una visione del loro futuro e del cambiamento diversa rispetto a quella degli anziani, (2) non basta «essere anagraficamente giovani» per agire un’identità giovane e convincere i giovani (Bernie Sanders che ha avuto il supporto dei giovani americani è un signore di 75 anni che potremmo tranquillamente definire anziano) - per convincere i giovani bisogna proporre loro qualcosa di più del cambiamento per il cambiamento. Se queste due «assunzioni» sono vere, allora le imprese per il loro bene (qui sottolineiamo «bene dell’impresa» e non dei singoli attori) e per il bene della società, dovrebbero iniziare a dare sostanza alla gestione di questa diversità di vedute cercando di creare un ponte tra le generazioni e a contemperare meglio i differenti interessi in gioco: la diffusione dei voucher e le parole chiave del «mito giovanilista» (energia, velocità, rapidità, passione) non vanno a braccetto.