Articolo 3
Leadership al femminile: parliamone
L’identità femminile, per ragioni storico-culturali, è stata ed è oggetto di stigma.
Lo stigma è un attributo individuale che è visto come un difetto o una carenza personale all’interno di un contesto sociale (Goffman 1963). Alcune caratteristiche identitarie (per esempio, l’essere donna) possono essere associate a uno stigma sociale e, quindi, possono rendere le identità degli individui stigmatizzate, cioè passibili di una considerazione e reputazione meno favorevole, fonte di pregiudizi, stereotipi e discriminazione (Goffman 1963; Crocker, Major e Steele 1998; Clair, Beatty e MacLean 2005).
I risultati delle indagini realizzate dal Diversity Management Lab della SDA Bocconi mettono purtroppo in evidenza che lo stigma e la discriminazione nei confronti dei gruppi sociali di minoranza (donne, stranieri, omosessuali, giovani e anziani, malati e disabili) fanno parte del panorama delle organizzazioni italiane. (Basaglia, Simonella e Paolino 2015). Dall’osservazione dei risultati di queste indagini emerge infatti che l’identikit dell’individuo che ha la probabilità più alta di essere assunto e/o promosso è il seguente: uomo, eterosessuale, giovane, senza figli o carichi familiari e in perfette condizioni fisiche. Per le donne (come per altri gruppi sociali di minoranza all’interno delle organizzazioni) risultano così critici l’accesso al mercato del lavoro, lo sviluppo e la promozione e quindi la possibilità di gestire ruoli di responsabilità e leadership. Queste considerazioni trovano riscontro in molteplici statistiche; per esempio, il «gender gap», un indicatore di sintesi che misura l’equità di partecipazione al lavoro, alla politica, all’istruzione, alle cure mediche tra uomini e donne in 145 paesi nel mondo. L’Italia si posiziona al 41o posto, ma al 111o per le opportunità economiche. e così ancora oggi rimangono valide le ben note metafore organizzative del soffitto di vetro e del labirinto di cristallo, a far luce sul come la vita professionale delle donne è un percorso a ostacoli, una competizione in condizioni di svantaggio con scarse probabilità di successo al traguardo.
In questo contesto parlare di leadership al femminile e non semplicemente di leadership, vuol dire sottolineare l’importanza del contributo che le donne possono portare in un’organizzazione attraverso la diffusione di competenze identitarie quali quelle relazionali volte all’inclusione, all’ascolto e al dialogo, senza subire l’omologazione rispetto al gruppo dominante. Essere donna e diventare leader oggi, vuol dire innanzitutto avere il coraggio di allontanarsi da logiche conformiste della maggioranza, alimentando un pensiero e uno stile di leadership divergente utile a costruire scenari futuri in cui ciascun attore organizzativo assume un ruolo possibile e necessario. Ma questa assunzione di ruolo, in accordo con la propria identità di genere, è possibile solo attraverso un percorso che parta da una ricerca interiore necessaria a risolvere conflitti personali, familiari e culturali che impediscono alle donne di riconoscere prima e rivelare poi il proprio talento e il proprio stile di leadership.
In generale questo potenziale del femminile (cioè le differenze psico-comportamentali quali le abilità e le prestazioni cognitive e affettive legate al genere), essendo stigmatizzato, è bloccato; di fatto le identità stigmatizzate tendono ad attivarsi in un certo contesto mascherandosi e imitando i comportamenti e i copioni della cultura dominante. (Clair, Beatty e Maclean 2005; Yoshino 2006). È una modalità di comportamento naturale, poiché diviene protettiva verso se stessi: una misura di sopravvivenza per convivere in un contesto giudicante e potenzialmente ostile; una protezione necessaria a gestire lo stigma sociale a cui le identità stigmatizzate sono quotidianamente sottoposte.
Il percorso della leadership al femminile è dunque un percorso di dialogo con la propria identità e il proprio sé; un percorso di riconoscimento e apprezzamento delle proprie differenze per poi poterle esprimere, senza vergogna e con autorevolezza, nella consapevolezza del grande contributo che possono generare per l’intera collettività. Viceversa, il femminile si camuffa da persona socialmente accettata quando assume quei comportamenti tipici e premiati dalla maggioranza e dalla cultura dominante, allontanandosi così progressivamente dal proprio centro, dal proprio sé. Studi recenti nell’ambito della psicologia empirica dimostrano attraverso l’uso della scala M-F (mascolinità vs. femminilità) come le donne abbiano nel tempo aumentato i punteggi in mascolinità rispetto a quelli in femminilità (Connell 2002). Il maschile risulta dunque maggiormente apprezzato; a controprova, quasi nessun uomo ha aumentato il punteggio in femminilità. Il prezzo da pagare per essere parte del gruppo, in particolare del gruppo di potere, è la negazione prima, e il rifiuto poi, di alcune parti del sé. È così che le energie spese in questo travestimento affaticano, creano fragilità e incertezza, a tal punto da portare le donne ad abbandonare la competizione o negare l’esistenza della propria identità e quindi della propria differenza, nell’inno corale del «non siamo donne, ma persone».