Articolo 3

25/09/2019 Zenia Simonella

Lo spettro del «generazionalismo»

Generazioni in azienda: il tema è entrato a pieno titolo nell’agenda dei media e, ovviamente, delle organizzazioni. Ricercatori, consulenti, guru, giornalisti s’interrogano su come gestire e far convivere le diverse generazioni a lavoro. Chi sono e che cosa desiderano i membri delle varie generazioni? What Do Millennials Want at Work? titola il blog del 20 agosto 2019 di Great Place To Work. Reality Bites Back: To Really Get Gen Z, Look at the Parents sostiene il giornalista di Bloomberg in un recente articolo.

«Generazione della ricostruzione» (1928-1945), «Baby boomers» (1946-1964), «Generazione X» (1965-1980), «Millennials» (1981-1996), «Generazione Z» (dal 1997)[1]: ognuno è parte di una generazione perché ha vissuto gli anni della formazione nello stesso periodo storico-sociale di altri individui. Si è accomunati da questo vissuto che ha lasciato traccia nella vita di ognuno.

Tutto così semplice? Non proprio.      

Essere esposti allo stesso contesto storico non significa necessariamente far parte di una generazione. È il punto centrale della riflessione di Karl Mannheim quando in Das Problem der Generationen (1928) distingue la Generationslagerung – ossia essere collocati in una generazione solo per il fatto di essere nati in un certo momento e la Generationszusammenhang – ossia condividere uno stesso orientamento, «partecipare ai destini comuni di un’unità storico-sociale». Mannheim sostiene infatti che non solo alcuni individui sono tagliati fuori dal corso degli eventi; ma anche che coloro che partecipano lo possono fare in modo diverso in base all’appartenenza di classe o ad altre caratteristiche [2].  

Insomma, individuare chi appartiene a una generazione è difficile. Lo è ancor di più individuare i confini di una generazione, anche perché ci possono essere delle sovrapposizioni: «L’elemento decisivo dell’esistenza delle generazioni non sta nel fatto che si susseguono, ma che si sovrappongono o s’incastrano fra loro» (Ortega y Gasset 1962).  

In genere, invece, le generazioni vengono presentate come date a-priori, pre-confezionate, a-problematiche. Sono trattate come attori sociali che pensano e agiscono in un determinato modo solo per il fatto che i loro membri siano nati in un certo anno che è stato collocato in una specifica generazione.

Il «generazionalismo» è questo: la tendenza a essere a-problematici, semplificando ed esagerando le differenze, cristallizzandole come fisse ed eterne. Il termine generazionalismo è tratto dal libro di Robert Wohl (1979) The Generations of 1914, con il quale lo storico indica quella corrente di studiosi che si rifà alle teorie sulle generazioni; ed è un termine che poi viene ripreso da vari autori per indicare quella fallacia del pensiero che cristallizza differenze presentandole come naturali, quando, al contrario, sono costruite socialmente. 

«Le generazioni storiche non nascono, si creano. Sono il mezzo con cui si tende ad interpretare mediante concetti la società per tentare di trasformarla», sostiene ancora Wohl. 

Sui giornali, negli studi accademici, nelle riviste e nei libri di divulgazione manageriale il generazionalismo spopola.

Eppure queste differenze non solo non esistono di per sé; ma non sempre sono valide per tutti e non sempre emergono.  

In un articolo di qualche anno fa pubblicato su una nota rivista di management, alcuni studiosi hanno analizzato i risultati di 20 lavori sul tema delle generazioni e hanno concluso che non risultano differenze sistematiche tra le generazioni su soddisfazione lavorativa, commitment e sull’intenzione di lasciare l’azienda in cui si lavora. Invitano quindi gli studiosi a riflettere maggiormente sulla classificazione adoperata e a sviluppare tecniche di ricerca più adeguate per studiare le differenze (dal punto di vista metodologico isolare l’effetto generazionale è molto complicato).

Gli autori invitano le organizzazioni a usare con cautela questa classificazione, e gli studi che si fondano su essa per promuovere eventuali interventi manageriali. Infatti, come abbiamo più volte sottolineato in questo spazio, il linguaggio e l’uso delle categorie non è neutrale. Contribuisce alla costruzione del mondo sociale e quindi anche del contesto lavorativo: il generazionalismo, per esempio, potrebbe favorire la costruzione di stereotipi e meta-stereotipi generando confronti artificiali e finendo per amplificare differenze e conflitti.



[1] È la classificazione del noto think tank Pew Research Center di Washington.

[2] Cfr. la voce redatta da Alessandro Cavalli sul concetto di generazione (http://www.treccani.it/enciclopedia/generazioni_%28Enciclopedia-delle-scienze-sociali%29/).

 

Diversitylab