Articolo 3

17/07/2019 Simona Cuomo

Più donne nei CdA: perché per le altre non è cambiato niente?

È tempo di bilanci per la legge Golfo-Mosca (lex 120/2011) che ha introdotto le quote di genere nei CdA delle società quotate e a controllo pubblico stabilendo che almeno un terzo dei componenti degli organi sociali debba appartenere al genere meno rappresentato. Il dispositivo di legge ha riguardato i tre rinnovi dei CdA successivi all’agosto 2012 (un periodo solitamente pari a nove anni) e a fine 2018 ha cessato di essere attiva per 34 società quotate.

Numerose monitoraggi e statistiche ne evidenziano gli  indubbi effetti positivi. In primo luogo la percentuale di donne consigliere è aumentata dal 7 per cento nel 2010 al 36 per cento del 2018, con la quasi totalità di imprese con almeno una donna nel CdA. In secondo luogo, sono cambiate le caratteristiche dei CdA; in particolare si è ridotta l’età media dei consiglieri, è aumentata la diversità in termini di età e background professionale, è cresciuto il livello medio di istruzione. Altri studi sottolineano perfino come la presenza femminile incida positivamente su alcuni indicatori finanziari a patto che nel consiglio siedano almeno due donne, ovvero si raggiunga per ciascun consiglio la cosiddetta critical mass.

Nonostante queste evidenze numeriche incoraggianti, l’incremento delle donne nelle posizioni apicali non ha portato miglioramenti visibili nel posizionamento dell’Italia nel Global Gender Gap Report nel 2018. Sebbene il nostro Paese abbia guadagnato dodici posizioni nella classifica generale passando dall’82° al 70° posto, il risultato relativo al mercato del lavoro vede l’Italia collocarsi al 118° posto su 149 Paesi. Questo dato è confermato da altre statistiche che evidenziano come nel 2017 la partecipazione femminile al mercato del lavoro sia pari al 55,9 per cento nel 2017 contro il 68 per cento a livello europeo; come la percentuale di donne nella posizione di manager sia il 29 per cento contro il 36 a livello europeo; e come la percentuale di donne nella posizione di senior executive sia il 9 per cento contro il 17 a livello europeo.

Le quote rosa nei consigli di amministrazione limano quindi solo la punta dell’iceberg del divario di genere? Come mai la maggiore presenza femminile nei CdA non è in grado di promuovere effetti a cascata sull’organizzazione? È necessario reinterpretare il senso della legge Golfo-Mosca rielaborando il significato che l’affirmative action sottende. Per fare questo è importante ricercare e cogliere gli effetti della legge oltre il miglioramento del dato numerico. La maggior rappresentanza femminile dovrebbe consentire una diversificazione del dibattito, dei temi portati all’agenda dei CdA, garantendo cioè quel grado di divergenza e innovazione che la «diversità» comporta.  A questo proposito l’importanza della diversità dei punti di vista e delle competenze come chiave per migliorare la qualità delle decisioni del consiglio è stata sostenuta  nel 2011 nel Libro verde della Commissione Europea. In questa direzione si sono susseguiti altri interventi  (Action Plan, 2012; direttiva 2013/36/UE; direttiva 2014/95/UE), recepiti in parte anche dal nostro ordinamento nazionale (decreto legislativo 30 dicembre 2016, n. 254). Le nuove regole sull’informazione non finanziaria invitano infatti le società quotate a dar conto, nella relazione di governance, delle politiche di diversificazione, quali l’età e il genere, seguite nella composizione degli organi di governo, gestione e controllo, e di illustrare i percorsi formativi e professionali dei membri.

La board diversity è quindi una premessa necessaria al miglior funzionamento degli organi societari. Ma se cambiamo la composizione numerica e non si amplia il dibattito e l’agenda dei temi portati all’attenzione del consiglio, se non sono visibili effetti a cascata sull’organizzazione, vuol dire che nulla è di fatto cambiato. Un segnale in tal senso si evince dall’aumento dell’interlocking femminile (ossia della percentuale di amministratrici che siedono in più consigli di amministrazione) nella scia di quell’«old boy network» che ha da sempre caratterizzato la composizione dei CdA.

È un problema di numeri, cioè le donne sono troppo poche per portare all’attenzione del consiglio tematiche relative alla people strategy e quindi ai temi del gender gap? È un problema di competenze poiché forse sono state prevalentemente selezionate donne con profili analoghi a quelli della maggioranza dei consiglieri e quindi con poca sensibilità a tali questioni? È un problema di ruoli, poiché di fatto il tema delle quote ha riguardato solo le posizioni non esecutive? Sarebbe necessaria un’estensione della legge introducendo lo stesso dispositivo anche ai comitati interni al consiglio che di fatto rappresentano uno snodo fondamentale nell’articolazione del governo delle società? È plausibile che questi effetti non si siano ancora manifestati, è solo cioè una questione di tempo? È un problema di legittimazione delle donne consigliere, che essendo comunque una minoranza scelta attraverso un obbligo di legge fanno fatica a introdurre nel dibattito consigliare argomentazioni divergenti?

Orientare con un ragionamento il dibattito pubblico e scientifico su queste questioni significherebbe infine ricordare alle donne entrate nei CdA come la stessa legge che le ha portate al potere sia nata anche grazie al supporto di un ampio movimento femminile; era il 2009 e molte donne si sono mosse per sostenere l’ingresso di altre donne nei CdA con la visione ottimista che fosse una chiave per garantire la presa in carico di un tema, quello della people strategy cui si connette il tema della gender issue e del modello di leadership dominante, a beneficio di tutti gli altri lavoratori  e lavoratrici. 

Diversitylab