Articolo 3

09/05/2019 Stefano Basaglia

Quando lo scherzo diventa discriminazione

Lo scorso febbraio, la Corte di Cassazione[1] ha rigettato il ricorso del Pastificio Rana contro una sentenza della Corte di Appello di Venezia[2]. La Corte aveva confermato la condanna dell’azienda per condotta vessatoria nei confronti di un dirigente che era stato licenziato (tale condotta sarebbe stata posta in essere tra il 2001 e il 2007, l’anno del licenziamento). Tra le cause di questa condotta era citato il fatto che il dipendente venisse sistematicamente apostrofato con il termine «finocchio».

L’azienda ha criticato la sentenza sostenendo che i giudici di appello non avessero colto il carattere scherzoso degli epiteti, il clima cameratesco nel quale venivano formulati e il fatto che il dirigente non aveva reagito.

La sentenza della Corte di Appello di Venezia e l’ordinanza della Corte di Cassazione portano all’attenzione, tra le altre cose, una serie di questioni rilevanti per le organizzazioni: fino a che punto ci si può spingere nello scherzo e nel cosiddetto cameratismo? Lo scherzo può essere peggio dell’insulto? Chi occupa posizioni e ruoli di potere non dovrebbe avere maggiori responsabilità?

Questi aspetti riguardano ciò che si dice, ma anche come ci si pone, fisicamente, nell’interazione con gli altri. Sono temi che diventano sempre più rilevanti all’aumentare della diversità nella composizione della forza lavoro e della visibilità delle caratteristiche identitarie dei lavoratori. In un’organizzazione omogenea per composizione dei gruppi sociali, per esempio, un’organizzazione in cui ci sono solo uomini, eterosessuali e di origini italiana, lo spirito di corpo può facilmente sfociare nel cameratismo. Anche in una situazione come questa sarebbe bene stare attenti perché, in qualsiasi organizzazione, per quanto omogenea lungo alcune direttrici identitarie, rimangono differenze basate sulla posizione e il ruolo: ci sarà sempre qualcuno più uguale degli altri. Pertanto, anche in un contesto apparentemente omogeneo è molto importante capire chi guida il gioco dello scherzo e dello scherno e con quali finalità: magari per sopire qualsiasi forma di devianza da un modello dominante? Per delegittimare l’interlocutore?

La situazione, come dicevamo, si complica quando diminuisce l’omogeneità e aumenta la diversità. Gli individui sono portatori di identità differenti, alcune volte stigmatizzate, quasi sempre suscettibili di stereotipi e pregiudizi. Ciò che può essere considerato un banale scherzo per una persona, può creare disagio in un'altra.

Come ci insegna Il nome della Rosa, la cui trama è tutta incentrata sui pericoli della risata e della commedia, può essere molto più insidioso lo scherzo dell’insulto. I manager devono, quindi, sviluppare sempre più una capacità di lettura del proprio contesto per evitare, prevenire ed eventualmente gestire situazioni di disagio. Chi gestisce persone deve cercare di costruire una cultura della buona educazione, del rispetto facendo attenzione al fatto che nessuna differenza può essere utilizzata per annullare un’altra differenza. In un contesto sociale, com’è un’organizzazione, non si può dire e fare tutto.

Verrebbe, qui, da utilizzare un termine che viene sempre più banalizzato, ridicolizzato e delegittimato, ossia quello di «politicamente corretto». Un termine che non significa altro che «buona educazione» e che suggerisce a chiunque, al di là del caso specifico, qualunque sia la posizione e il ruolo, di non definire un collega, responsabile, sottoposto «finocchio». Anzi, nel caso di persone che occupano posizioni di potere, c’è anche la responsabilità che altri non lo facciano. Speriamo che questa ordinanza della Cassazione sia di insegnamento, come lo furono, alcuni anni fa le vicende che riguardarono Barilla, il suo presidente e la comunità LGBT.

 



[1] Si tratta della sezione lavoro e con ordinanza n. 4815 del 19 febbraio 2019 .

[2] N. 466 del 23 settembre 2014.

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