Articolo 3

22/03/2019 Simona Cuomo

Quei paletti al lavoro agile

Le lavoratrici che hanno concluso il congedo di maternità da meno di tre anni e i genitori dei figli in condizioni di disabilità grave hanno diritto alla precedenza rispetto ai loro colleghi quando chiedono di lavorare in modalità «agile» (o smart working). Questa è la novità introdotta dalla legge di bilancio 2019 (lex 145/2018 comma 486) in parziale modifica alla legge 81/2017 che ha istituito il lavoro agile come una modalità alternativa di esecuzione del rapporto subordinato. Questa misura, che sembra di primo acchito voler sostenere le categorie storicamente più svantaggiate sul mercato del lavoro, rischia di rallentare il percorso verso la parità facendo compiere un’enorme passo indietro ai lenti progressi che sono stati raggiunti in materia di flessibilità sul lavoro.

Prima del processo di istituzionalizzazione del lavoro agile, le poche pratiche di lavoro flessibile presenti nelle imprese affrontavano il tema della gestione del tempo e dello spazio in un modo indifferenziato e standardizzato; si parlava in via esclusiva di part-time e flessibilità in entrata e in uscita, spesso generando un effetto boomerang, perché tali pratiche simbolicamente ribadiscono il modello tradizionale di lavoro, basato sulla presenza fissa in ufficio.

L’ampio dibattito culturale e pubblico che si è generato in questi ultimi dieci anni ha sostenuto il lavoro agile come pratica in grado, da un lato, di superare le discriminazioni nei confronti dei lavoratori in part-time (soprattutto donne), dall’altro come strumento per agevolare il superamento di una cultura organizzativa basata sulla presenza come sinonimo di «prestazione».

Essendo una pratica organizzativa estesa a tutti i lavoratori, il lavoro agile, da un lato, porta a superare il pregiudizio secondo il quale chi adotta forme di flessibilità (tipicamente il part time) è meno produttivo e performante e pertanto diventa un lavoratore di «serie b» agli occhi degli altri e nel sistema formale premiante. Dall’altro, rappresenta un’opportunità per diffondere una nuova cultura manageriale, per sviluppare nuovi modelli di leadership basati sulla fiducia, sulla collaborazione, sul rilascio di margini di autonomia e responsabilità individuale, e sull’inclusione che porta ad apprezzare modalità di lavoro parzialmente differenti dallo standard, evitando comportamenti di fastidioso controllo fine a sé stesso.

Adattare dunque il lavoro agile solo alle esigenze delle donne non rischia di svilire uno strumento che nasce con un altro potenziale? Una «priorità» accordata a una categoria circoscritta di persone non diventa un benefit, ma la premessa per un processo di stigmatizzazione, così come è avvenuto nel passato per tutti i lavoratori con un contratto di lavoro part time. Una seconda riflessione riguarda la priorità di accesso accordata alle mamme. Anche questa declinazione del lavoro agile, apparentemente a vantaggio della categoria che storicamente ha avuto maggiori difficoltà di conciliazione e conseguentemente di sviluppo in ambito professionale, rischia di lasciare incompiuta quella rivoluzione (di genere) che ancora oggi spinge sempre più da una parte verso la partecipazione e femminilizzazione del mercato del lavoro e la partecipazione, dall’altra verso la maschilizzazione del lavoro familiare. Una trasformazione che stimola il superamento della tradizionale divisione dei ruoli sociali, considerata una delle principali cause di discriminazioni che si rilevano sul mercato del lavoro a svantaggio delle donne.

Questa trasformazione è stata favorevolmente accolta anche da molte imprese che oggi propongono programmi a sostegno della genitorialità e non più a sostegno della maternità. Viene dunque il dubbio che il legislatore, pur animato da buone intenzioni, ignori i progressi culturali compiuti in questi anni.

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