Articolo 3

06/06/2018 Simona Cuomo

Pay gap, ha ancora senso parlarne?

Il pay gap, il divario negli stipendi percepiti da uomini e donne a parità di posizione di lavoro, è diventato un emblema mediatico nell’ambito del discorso pubblico sulle disuguaglianze di genere. Molte e differenti percentuali per quantificare il fenomeno, a partire da differenti statistiche (da Istat a Eurostat, a Banca d’Italia a Isfol ecc,) sono state pubblicate negli anni, spesso con toni enfatici, sovente in occasione dell’8 marzo. Ma quando si pubblicano con ricorrenza dati spesso contrastanti, i dati si normalizzano e la questione assume un valore prevalentemente emotivo. La Pubblicità Progresso del 2015 è un esempio di come il pay gap venga trattato per sensibilizzare sul tema della discriminazione di genere e ottenere la partecipazione emotiva di tutti attraverso un’argomentazione, quella del guadagno, che si presta a una semplice sintesi comunicativa.

Il Diversity Management Lab già nel 2006 ha pubblicato una ricerca i cui dati evidenziano che il problema non sta nella quantificazione del pay gap ma nelle differenza di posizioni ricoperte da uomini e donne: ci sono ancora poche donne che ricoprono posizioni a elevata complessità gestionale, nelle funzioni e nei settori meglio pagati dal mercato. Se ci fosse maggiore simmetria nelle posizioni il pay gap assumerebbe un valore percentuale statisticamente irrilevante. Abbracciando questa interpretazione, diverrebbe importante spostare l’attenzione comunicativa su argomentazioni relative alle relazioni causali che determinano il pay gap. Perché in fondo continuare a parlare di pay gap, se non è questa la chiave per risolvere il gender gap?

Al pay gap i media attribuiscono la possibilità di evocare e rappresentare la discriminazione di genere attraverso un argomento, quello del guadagno, da un lato significativo per tutti i lavoratori e quindi neutrale; dall’altro sufficientemente oggettivabile da una sintesi numerica (il valore percentuale) concettualmente semplice e divulgabile. In un articolo pubblicato recentemente su Repubblica, si riprende l’argomento presentando il pay gap nei consigli di amministrazione e sostenendo che, data l’asimmetria rilevante negli stipendi tra consiglieri uomini e donne, la legge Golfo Mosca sulla parità di genere nei consigli di amministrazione, non ha funzionato. Gli spunti di riflessione che questo articolo genera sono di due ordini. Il primo è che gli stipendi che si nominano, al di là del pay gap, sono «stellari» e quindi perdono di credibilità argomentativa. Di fatto il top management aziendale è ritenuto sovra pagato e la questione del pay gap, per stipendi così distanti dalla realtà dei lavoratori, perde di rilevanza simbolica per la maggioranza di questi ultimi. In secondo luogo ci si interroga sul perché, uscendo dalla scia mediatica finora usata per parlare di pay gap, non proporre una riflessione che discuta in termini propositivi questa differenza; gli stipendi delle donne potrebbero diventare un ancoraggio per verificare la coerenza e l’equità organizzativa della politica retributiva del consiglio rispetto al resto della popolazione aziendale. Nei CdA il tema rilevante non è il differenziale di guadagno tra uomini e donne, ma il differenziale retributivo tra i compensi dell’amministratore delegato e quelli dei dipendenti.

La sfida del femminile al potere è quella di arricchire le organizzazioni di modelli interpretativi di ruolo e stili di leadership differenti dal modello e dal modus operandi dominante; una leadership che si nutre dell’ascolto delle possibilità emotive, cognitive e comportamentali specifiche dell’identità di genere e che per questo può risultare maggiormente orientata al bene della collettività, al di là dell’interesse e/o guadagno soggettivo

È dunque impensabile immaginare che le donne nei CdA delle imprese italiane quotate in Borsa, anziché utilizzare il differenziale retributivo nei confronti degli altri consiglieri come emblema di un tema di pay gap, promuovano una richiesta per rivedere i criteri di remunerazione del consiglio in ottica di maggiore equità rispetto il resto della popolazione organizzativa? Sarebbe un’utopia pensare di chiedere, anche solo simbolicamente, agli altri consiglieri di ridursi il compenso, così come è stato fatto per esempio in Inghilterra, alla BBC e all’EasyJet? Se l’immaginazione e l’utopia trovassero reali spazi propositivi, avremmo davvero un significativo esempio di leadership al femminile.

Cuomo Simona