Articolo 3
I numeri vanno letti per bene
Domenica 7 maggio, il quotidiano la Repubblica titolava in prima pagina «In un anno solo 2800 unioni civili» e in seconda pagina «La frenata delle unioni civili». Questi due titoli, il contenuto dei rispettivi articoli e il layout delle due pagine interne hanno generato una vasta protesta da parte di attivisti e cittadini all’interno dei social media e dei blog LGBT. Una protesta ben fondata tanto che nell’edizione online e nell’edizione di lunedì 8 maggio, il quotidiano ha precisato e chiarito cercando di correggere l’errore. La giornalista de la Repubblica e lo staff che ha confezionato e approvato il servizio, infatti, hanno commesso molti errori. Errori che anche le imprese spesso compiono quando hanno a che fare con una minoranza, com’è la comunità LGBT, e che ci si aspetta che non vengano commessi da chi, di mestiere, fa il giornalista presso un giornale di qualità. I media, infatti, hanno un ruolo importante nell’influenzare i processi di legittimazione delle identità e dei comportamenti associati a tali identità. Ci si accanisce, spesso, contro il sessismo delle pubblicità, ma si lascia, sovente, passare sottotraccia il lassismo di chi ha il dovere professionale di fare informazione e divulgazione. Vediamo, quindi, quali sono questi errori.
Il primo errore di base è che quando si analizza l’impatto sociale di un diritto che riguarda una minoranza che è stata, ed in parte lo è tuttora, stigmatizzata, non si può prendere come punto di riferimento il mero dato quantitativo di chi utilizza tale diritto. Tale numero sarà, per forza di cose, minoritario e andrebbe pesato rispetto al totale dei potenziali utilizzatori e tenendo conto delle caratteristiche socio-culturali del contesto che si considera. La celebrazione di un’unione civile è una forma pubblica di espressione del coming-out: se il contesto è impregnato di omofobia, ci aspettiamo che, a parità di altre condizioni, il coming-out sia più basso. L’effetto, quindi, che andrebbe analizzato è un effetto di medio-lungo termine che si innerva nei macro-processi di legittimazione cognitiva a livello sociale: l’esistenza stessa del diritto può contribuire a rendere nel tempo quel contesto più favorevole. Questo errore viene commesso di frequente anche dalle imprese: quando si chiede di adottare politiche di diversity management per i loro lavoratori LGBT, la risposta di molte aziende è che nelle loro organizzazioni non ci sono lavoratori LGBT. Questa dichiarazione è sintomatica di omofobia all’interno dell’organizzazione: ovviamente è molto difficile che in un’impresa medio-grande non ci sia neppure un lavoratore LGBT. L’esistenza dei nuovi diritti pone anche le aziende più refrattarie a gestire la diversità ad avviare un percorso di presa di coscienza dell’esistenza di questi diritti: cosa facciamo se un nostro lavoratore chiede il congedo in occasione dell’unione civile? Anche se nessuno lo ha ancora chiesto, la possibilità che questo accada avvia un percorso di presa di coscienza dell’esistenza reale di lavoratori e cittadini LGBT.
Il secondo errore è di carattere più tecnico: la legge è stata approvata l’11 maggio, è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 21 maggio (si tratta, infatti, della legge n. 76 del 20 maggio 2016), è entrata in vigore il 5 giugno 2016 e i decreti attuativi sono stati approvati a novembre 2016. Le prime unioni civili si sono svolte, sulla base di regole provvisore, a partire dalla fine di luglio 2016. Nell’articolo in questione si tiene conto, alla fine, di questo iter, ma non si traggono da queste tempistiche le cautele del caso e non si tiene conto della stagionalità dei matrimoni e, per estensione, delle unioni civili; non si tiene conto dell’opposizione da parte di alcune amministrazioni comunali rette da sindaci di movimenti politici ostili ai diritti LGBT. Addirittura in un grafico si indica «0 unioni civili all’11 maggio»: non potrebbe essere che così. Pertanto, ammesso e non concesso che abbia un senso misurare, a un anno dall’approvazione della legge, il numero di cittadini che hanno utilizzato il diritto dell’unione civile, un anno pieno a tutti gli effetti non è ancora passato: bisognerebbe attendere settembre/dicembre 2017. Anche le imprese incorrono in un errore di questo tipo: confondono l’adozione retorica di una politica con l’utilizzo sostanziale di una pratica. Tra l’adozione retorica e l’utilizzo sostanziale c’è di mezzo quella «piccola» fase intermedia che si chiama «implementazione»: bisogna tradurre le politiche in nuovi frame cognitivi, in nuove azioni, in nuovi comportamenti. Per fare questo ci vuole tempo, ci vogliono risorse, ci vogliono persone che facciano camminare le idee. Ci vuole impegno e ci vuole la sponsorship dei vertici aziendali. È anche possibile che il vertice aziendale sia illuminato e favorevole all’adozione del diversity management, ma è necessario che il supporto si propaghi lungo l’intera organizzazione, anche nelle più lontane provincie dell’impero. Per esempio, quante sono le imprese statunitensi che hanno adottato le politiche di diversity management e quante le sussidiarie italiane che hanno recepito in pratica queste politiche?
Il terzo errore, che è frutto del combinato dei primi due, è che è pericoloso parlare di «trend» quando si analizza un evento/fenomeno nuovo. La statistica ha bisogno di tempo per poter diventare minimamente affidabile e sono necessari confronti pesati rispetto alla numerosità delle differenti popolazioni in gioco. Anche in un modo ideale privo di omofobia ci aspettiamo che il Molise e la Valle d’Aosta, in valore assoluto, siano caratterizzate da un numero di unioni civili basso, visto che si tratta delle due regioni meno popolate d’Italia. Inoltre, diventa interessante più che una dialettica Nord-Sud, una dialettica città-campagna, come anche le recenti elezioni francesi ci hanno insegnato. Nei primi mesi/anni un’analisi qualitativa che si cala nel contesto sarebbe preferibile. Questo vale anche per le imprese: le imprese si lamentano del fatto che non vedono risultati a valle dell’adozione delle politiche di diversity management. Al di là del fattore tempo, sarebbe necessario entrare nelle singole organizzazioni per comprendere come il micro-clima organizzativo stia cambiando e si rapporti rispetto all’utilizzo vero e proprio delle politiche e pratiche di diversity management. Questi micro-fenomeni non sempre sono colti da indagini quantitative; spesso richiedono, per emergere e per diventare «risultato», un’analisi più sofisticata e approfondita. Infine, articoli come quello pubblicato domenica hanno l’effetto di frenare il processo di legittimazione dell’identità e della vita quotidiana dei cittadini e dei lavoratori LGBT. In alcuni casi articoli come questo sono sobillati da fervore ideologico; in altri casi da un semplice lassismo. Anche il lassismo, però, può essere pericoloso. Vale per i media, ma vale anche per le organizzazioni. Ecco perché abbiamo bisogno in tutte le sfere della società di persone in grado di saper maneggiare i concetti di diversità, identità, stigma, minoranza.