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La disfida del velo islamico in azienda
La Corte di Giustizia Europea con due sentenze recenti – la C‑188/15 e la C‑157/15 – si è espressa su due casi relativi all’uso dello hijab (velo islamico) sul luogo di lavoro. In entrambi si è giunti al licenziamento delle donne: nel caso belga, la donna è stata assunta dall’azienda e ha poi chiesto di indossare il velo sul luogo di lavoro; richiesta che non è stata accolta. Nel caso francese, l’azienda ha chiesto alla donna di togliere il velo a seguito della lamentela di un cliente; la donna si è rifiutata ed è stata licenziata. Anche nel caso belga la donna ricopriva un ruolo a contatto con il pubblico.
Le due donne si sono appellate alla Corte di Giustizia Europea ritenendosi discriminate per il credo religioso. Con la sentenza C‑157/15 la Corte ha affermato che «la disparità di trattamento non costituirebbe una discriminazione indiretta (…) qualora fosse oggettivamente giustificata da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento fossero appropriati e necessari». La volontà di mostrare, nei rapporti con i clienti sia pubblici sia privati, una politica di neutralità viene considerata legittima dalla Corte, ma a condizione che tale politica sia realmente perseguita in modo coerente e sistematico. Invece, si parlerebbe di discriminazione qualora sia dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro dell’azienda comporti, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una religione o ideologia.
La Corte di Giustizia Europea si è pronunciata sulla questione, ma la decisione sui due casi spetta al giudice nazionale.
Amnesty International ha sottolineato alcune perplessità verso una sentenza giudicata «deludente», in quanto offrirebbe «maggiore libertà d’azione ai datori di lavoro per discriminare le donne e gli uomini sulla base del credo religioso».
Alcune riflessioni: in primo luogo, ci si potrebbe domandare che cosa sia una «politica di neutralità»: i risultati delle ricerche mostrano che i dipendenti non si sentono trattati equamente sui luoghi di lavoro; e che le aziende si impegnano poco per avviare politiche di gestione delle persone adeguate ed efficaci a garantire il rispetto delle pari opportunità (si vedano i post su questo blog). In secondo luogo, nel caso del divieto imposto a seguito della rimostranza di un cliente, l’azienda non ha attuato una politica di neutralità: ha assecondato il pregiudizio di un cliente, anteponendo il suo obiettivo economico al rispetto del diritto della libertà religiosa. Ci si potrebbe chiedere invece se avrebbe potuto risolvere la questione bilanciando il suo interesse con il rispetto della libertà religiosa. Nel caso in questione parrebbe che abbia preferito non gestire il caso, chiedendo alla donna di rinunciare a indossare il velo.
Una volta si diceva: «Questa non politica è proprio una bella politica». Una gestione delle persone in un’ottica di rispetto delle differenze si muove nella direzione opposta.