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Disabilità e malattia trovano poco spazio nelle aziende italiane
La disabilità e la malattia dei lavoratori non rientrano nell’agenda manageriale delle imprese italiane. Le aziende non ritengono importante stanziare risorse (sociali, intellettive ed economiche) per definire e implementare politiche e pratiche al fine di gestire questo tema in modo efficace sia per l’impresa sia per i lavoratori. Tali considerazioni, da tempo note ai diversi attori del mercato del lavoro per le esperienze di cui ciascuno è stato testimone diretto o indiretto, vengono confermate dalle ricerche condotte negli anni dal Diversity Management Lab di SDA Bocconi.
Il tasso di adozione del Diversity Management (definito come insieme di politiche e pratiche di gestione della diversità) da parte delle imprese italiane con più di 250 addetti è pari al 21 per cento. Sul fronte delle categorie sociali le aziende si sono impegnate a gestire per lo più tematiche di genere (84 per cento delle imprese adottanti); di età e delle generazioni (58 per cento delle imprese adottanti); poche sono le imprese che si occupano di differenze etnico-culturali (39 per cento delle imprese adottanti); pochissime di orientamento sessuale (10 per cento delle imprese adottanti); nessuna di disabilità e malattia.
Ulteriori ricerche condotte dal Lab evidenziano un atteggiamento utopico da parte delle imprese che si aspettano di assumere e sviluppare un idealtipo di lavoratore (maschio, bianco, giovane, senza figli, eterosessuale, in ottima salute) nella convinzione che solo questo «super-uomo» possa garantire una performance ottimale. Infine, tra gli aspetti identitari oggetto di stigma sociale (genere, età, cultura, orientamento sessuale, avere figli ecc.), disabilità e malattia hanno un effetto di penalità maggiore sulla reputazione dei lavoratori rispetto alle altre categorie.
Questi dati evidenziano quindi l’esistenza di un pregiudizio nella cultura organizzativa dominante delle imprese italiane che porta a considerare le persone disabili e affette da malattie croniche un male necessario. A tal punto che si preferisce – nella maggioranza dei casi – aggirare l’obbligo di legge (di assunzione del quorum obbligatorio) pagando una penale; quando lo si rispetta, viene adempiuto in modo formale, non ascoltando la persona e non tenendo conto delle competenze di cui è portatrice; ma valutando in maniera pregiudizievole la disabilità/malattia come un limite alla performance. Così gli inserimenti vissuti come problematici avvengono ai limiti della ragionevolezza (le persone non udenti vengono inserite al centralino; le persone non vedenti a controllare le fatture ecc.) e le opportunità di sviluppo sono precluse a priori. Di conseguenza, spesso le persone con disabilità che lavorano svolgono mansioni di medio-basso livello, anche se avrebbero i requisiti e le competenze per ricoprire ruoli con maggiori responsabilità. Lo stigma, infatti, ha come conseguenza quello di limitare avanzamenti di carriera, di generare isolamento all’interno dell’organizzazione, fino alla perdita del lavoro stesso (Cox 1993).
Eppure le persone disabili sono la «terza nazione del mondo». Si tratta di un miliardo di persone, 350 milioni in età lavorativa. In Italia le persone disabili sono 4,1 milioni, di cui 1,5 milioni in età lavorativa, con un tasso di disoccupazione dell’80 per cento.
Sul fronte della malattia poi diviene altamente probabile che un lavoratore si ammali in modo cronico durante la sua lunga vita professionale, dato che con la Legge Fornero la vita lavorativa si prolunga fino alla vecchiaia.
In questo scenario è evidente come il tema della disabilità e della malattia non sia qualcosa marginale, che si possa eludere confinandolo come un problema di una minoranza di lavoratori; si tratta al contrario di un tema che, se non viene fatto entrare nelle agende manageriali di oggi, le travolgerà fra non molto.
Diviene quindi importante incrementare fin da subito le competenze degli attori coinvolti nella gestione della diversità per stimolare possibili miglioramenti delle pratiche attuali e ulteriori sviluppi.
Altrettanto importante è individuare delle best pratice da condividere tra le organizzazioni, in modo da rafforzare il processo di diffusione e adozione che aiuti a ridurre il gap tra adozione retorica e adozione sostanziale.
Con questi obiettivi il Diversity Management Lab, con la partnership di Jobmetoo e WOW, si è fatto promotore di un importante progetto di ricerca applicata. Le imprese sensibili e lungimiranti, che vogliano dare un proprio contributo, possono mettersi in contatto con il Lab rispondendo a questo blog. Per dare voce a questo tema abbiamo infatti bisogno del contributo di chi, come noi, pensa sia ancora possibile costruire un’impresa rispettosa dei suoi lavoratori.