Articolo 3

23/11/2016 Stefano Basaglia

Il peso dell'identità sulle presidenziali USA

La recente elezione del magnate Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America pone degli interrogativi potenzialmente rilevanti per chi si occupa di identità e diversità nelle organizzazioni.

 

Prima di tutto, l’esito del voto è stato analizzato in termini di composizione degli elettori puntando l’attenzione sulla loro identità sociale. In particolare, il successo di Trump a livello di voto dei grandi elettori è stato attribuito alle preferenze di tre gruppi sociali: 1) gli elettori bianchi con basso livello di istruzione, che hanno rafforzato nettamente le loro preferenze verso il campo repubblicano; 2) gli elettori con un reddito annuo inferiore a 30.000 dollari, che hanno nettamente indebolito le loro preferenze verso il campo democratico; 3) gli elettori uomini, che sono tornati al campo repubblicano dopo la parentesi del 2008. Non è stata rilevata, invece, la classe sociale che non coincide tout court con il livello del reddito e/o con la professione. Come si sia comportato il proletariato urbano e quello rurale, quali siano le preferenze della borghesia urbana e di quella periferica rimane sullo sfondo. Certamente negli Stati Uniti la classe sociale è vittima di una frattura identitaria. È giunto, però, forse il momento di provare a ricomporre questa frattura, almeno a livello di analisi e riportare la questione di classe al centro del dibattito: questo vale quando il discorso riguarda la sfera politico-sociale, ma dovrebbe valere anche quando consideriamo la sfera economica e le imprese. Non bisogna, infatti, dimenticare che sono i gruppi dominanti all’interno delle imprese a contribuire a plasmare la sfera economica e, in parte, quella sociale. La globalizzazione è senz’altro una tendenza di fondo. Questa tendenza di fondo, però, non è venuta da Marte: è stata alimentata dalle decisioni dei governi e degli attori economici (in primis, le imprese). Delocalizzazione, riduzione della forza lavoro, contenimento dei salari sono decisioni delle imprese. In un’ottica, quindi, di attenzione verso l’identità e la diversità dei propri lavoratori non dovrebbe mancare un’analisi su quelli che sono gli impatti in termini di classe sociale. Sia in ottica interna (di impatto sulla qualità e quantità del lavoro), sia in ottica esterna (di impatto sociale). Focalizzare l’attenzione sull’1 per cento dei cosiddetti «talenti» è un modo per guardare il dito e perdere di vista la luna.

 

In secondo luogo entra in campo l’identità sociale e di ruolo dei due candidati. Tutti e due fanno parte del cosiddetto establishment o, per dirla con Wright Mills, dell’élite del potere.

Alcuni studi condotti tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, hanno messo in evidenza come l’elite del potere americana sia ancora sostanzialmente «WASP» (Temin 1999 e Mizruchi 2000). Da questo punto di vista la presidenza Obama ha rappresentato un’eccezione in un contesto ancora saldamente «bianco». Se l’appartenenza all’élite del potere e la whiteness accomunano Hillary Clinton e Donald Trump, la differenza di genere dei due candidati è stata una pedina fondamentale del gioco elettorale. I due candidati, infatti, lo hanno utilizzato in maniera differente. Paradossalmente, è stato più Trump ad agire la propria «maschilità» che non Clinton ad agire la propria «femminilità». Hillary Clinton è stata la prima donna a concorrere per la carica di presidente degli Stati Uniti d’America ed è stato detto che avrebbe rappresentato un simbolo per l’ascesa al potere delle donne americane. Non è chiaro, però, se abbia agito pienamente questa identità durante la campagna elettorale, ossia se abbia fatto una reale differenza nello stile di leadership e nell’agenda del suo programma di governo. Il tema diventa: ha agito uno specifico «femminile» e, quindi, ha portato una qualche forma di diversità legata al suo genere? Ha portato all’attenzione una «leadership al femminile» contrapposta a una «leadership al maschile» che ha connotato le precedenti 44 presidenze? Donald Trump, invece, ha agito pienamente la sua maschilità portandola alle estreme conseguenze con un atteggiamento platealmente machista, sessista e negazionista del politicamente corretto.

 

In terzo luogo questa elezione ci dice che l’approccio fideistico nei confronti dei numeri e della misurazione quantitativa può portare a errori di percezione e valutazione. Questo accade spesso anche nelle organizzazioni dove, sovente, tutto deve essere misurato e riportato a un numero che sia immediatamente e ingenuamente intellegibile. Per esempio, dal punto di vista del Diversity Management: quante donne sono state assunte nell’ultimo anno? Quante donne siedono nel CdA? ecc. A questa ansia da misurazione bisognerebbe aggiungere e/o sostituire un approccio qualitativo che entri nella complessità dei fenomeni sociali e si cali nei contesti sostituendo l’analisi con l’interpretazione.

 

Concludendo queste elezioni hanno portato al centro dell’attenzione il tema delle identità, del conflitto tra identità, della necessità per la società, ma anche per le imprese di avere una visione ampia della diversità che cerchi anche di riprendere il tema della classe sociale. Inoltre, l’identità porta diversità e cambiamento se è agita. Non basta appartenere alla categoria «donna» per generare cambiamento. Bisogna dire e fare cose diverse. Infine, i numeri sono importanti, ma i fenomeni sociali richiedono qualcosa di più di un semplice modello matematico. 

Basaglia