Articolo 3
La con-fusione tra vita privata e lavoro
Un tema spesso trattato nel campo del Diversity Management è quello del bilanciamento vita privata-lavoro. Questo bilanciamento è sovente ridotto al bilanciamento famiglia-lavoro e viene associato a quello dell’occupazione femminile e al ruolo delle donne all’interno delle organizzazioni. Consideriamo qui tre casi di donne (madri-mogli-lavoratrici) e il loro punto di vista sul «bilanciamento».
1) Marissa Mayer racconta della sua esperienza prima in Google e poi in Yahoo
«Chi scrive di Google — premette Mayer — dubita che davvero questa abitudine al lavoro duro sia inevitabile. Qualcuno si chiede addirittura se sia possibile lavorare 130 ore alla settimana. La mia risposta è sì. È possibile. […] Bisogna sapersi organizzare bene. Pianificare quando dormi, quando fai la doccia e anche quanto spesso vai in bagno. Nella sede di Google c’erano le “nap room”».
«La società non poteva permettersi il lusso di avere un amministratore delegato che rimaneva a casa quattro o sei mesi. Così ho inserito il bambino nel mio stile di vita. Per quattro mesi l’ho tenuto con me in ufficio anche quando rispondevo agli analisti nelle conference call. Ha cominciato ad orecchiare i discorsi sui fatturati e le trattative per un accordo. E mostrava di capire».
2) Anita Pirovano, consigliera del Comune di Milano, commenta la discussione nata dall’aver portato la figlia al consiglio comunale:
«Mai avrei pensato di poter essere attaccata, nel 2016, per aver portato in due occasioni e per un’ora in tutto mia figlia in Consiglio comunale», ha detto Pirovano, spiegando di aver avuto un’emergenza, causata dal cambio del nido e dal conseguente graduale inserimento della piccola. «Mia figlia non ha arrecato alcun disturbo», ha aggiunto, confermando che continuerà a portare la piccola Viola ogni volta che sarà necessario. Perché «conciliare un impegno politico e amministrativo con la cura familiare è molto complicato».
3) Maria Grazia Chiuri – appena nominata direttrice creativa di Dior – così si definisce:
«Semplicemente una donna che lavora, cha ha una famiglia, che cerca di conciliare le sue passioni con la sua vita privata, a volte mi riesce bene, a volte male, che ha avuto anche la fortuna di trovare un uomo che l’ha molto sostenuta, che è mio marito».
Si tratta di tre situazioni molte differenti, ma che danno bene il senso del discorso intorno al tema del bilanciamento vita privata-famiglia-lavoro. La situazione descritta da Marissa Mayer è quella di una classica gabbia dorata, un’organizzazione che fornisce così tanti servizi da annullare i confini tra vita privata e lavoro e da appropriarsi di tutto il tempo del lavoratore. Non c’è più una casa (privata, esclusa dal controllo normativo dell’organizzazione) cui tornare e in cui rifugiarsi. L’organizzazione, in questo modo, crea, per dirla con Baudrillard, un simulacro di libertà, per implementare un sistema di controllo normativo e per stimolare, di fatto, una forma di schiavitù volontaria.
Il caso sollevato dal comportamento di Anita Pirovano è dello stesso tipo, ossia quali debbano essere i confini tra una dimensione strettamente privata e una dimensione essenzialmente pubblica di tipo performativo. Quali sono gli interessi in gioco? E quali tra questi è da privilegiare? Quelli della madre-consigliera, quelli della neonata, quelli del funzionamento del consiglio? Sarebbe una soluzione avere a disposizione un servizio di asilo nido «aziendale»? Non si rischia con l’asilo nido aziendale di far entrare l’organizzazione anche nell’educazione dei figli? Tutto deve svolgersi affinché la macchina organizzativa non si fermi, tutto è finalizzato al «ben-essere» dell’organizzazione.
Infine, la descrizione che fornisce di sé Maria Grazia Chiuri è quella che maggiormente coglie la complessità del tema, andando al di là della costruzione sociale e retorica della «conciliazione» facendo emergere il conflitto tra passioni individuali, famiglia, lavoro e in cui viene sottolineata l’importanza che in una famiglia – a prescindere dalla composizione in base al genere – ci sia, se possibile e necessario, una differenziazione di ruolo: chi sta più al lavoro e chi sta più a casa (intendendo con casa il luogo privato, sottratto agli occhi e agli interessi dell’organizzazione). Ovviamente, tale differenziazione non deve essere più legata alla segregazione di genere: in una famiglia eterosessuale non deve essere di necessità la madre a occuparsi della dimensione privata. In una famiglia omosessuale il tema può proporsi con meno vincoli legati alla segregazione di genere, ma non è detto che siano totalmente assenti vincoli di altra natura. Soprattutto se lo status è sempre legato alla prestazione lavorativa esterna e pubblica.