Articolo 3

01/08/2016 Simona Cuomo

Se nei media sventola la bandiera della maternità

L’essere madre, secondo le recenti dichiarazioni pubbliche di Andrea Leadsom (la candidata alla guida dei conservatori inglesi sconfitta da Theresa May) e di Manuela Carmena, battagliera sindaca di Madrid, dovrebbe rappresentare una sorta di vantaggio competitivo. Solo se sei mamma «puoi avere a cuore la nazione», solo se sei mamma puoi avere la cultura del quotidiano e della gestione delle cose pratiche, indispensabile per amministrare una città. Quindi le donne amministrerebbero meglio perché brave casalinghe o perché mamme.

Questo dibattito pone al centro alcune questioni importanti per la vita professionale di ciascuna donna. È vero che la maternità genera delle competenze distintive anche per il ruolo professionale? È importante fare della maternità un messaggio chiave della comunicazione mediatica?

La maternità nella vita professionale delle donne è stata fino a oggi vissuta come uno stigma[1]. Nel mercato del lavoro e nel modello di carriera attuale, avere dei figli è stato considerato un limite. L’assenza (o la presunta assenza) per maternità genera infatti degli stereotipi sulle donne che sono all’origine di modifiche del comportamento dei capi e dei colleghi nei loro confronti, nella convinzione che l’essere madri cambi le attitudini delle donne rispetto al loro lavoro e alle organizzazioni. Inoltre la maternità è stata considerata un costo per le aziende: a parità di competenze si preferisce un uomo perché assumere una donna significa incorrere in maggiori rischi e maggiori oneri. Le donne, stando a casa per un periodo di tempo, costano di più. Queste convinzioni, peraltro prive di fondamento scientifico, e i comportamenti a esse correlati, sono ancora profondamente radicati nella cultura delle imprese italiane, al punto da comportare per moltissime donne una rinuncia alle proprie aspirazioni professionali: o sei mamma o sei una manager, così come è stato ultimamente ribadito a Giorgia Meloni nel corso della sua campagna elettorale per le amministrative[2].

Per avviare un processo di cambiamento di questa situazione, evolutivo ed arricchente non solo per le donne ma per le organizzazioni in generale, è importante comunicare che la maternità non è un vincolo, ma un’occasione di crescita personale che apporta valore anche alla vita professionale.  Per esempio, la capacità di prendersi cura dei figli si traduce nella capacità di prestare attenzione ai collaboratori e ai clienti. Si diviene più capaci di motivare gli altri e di adottare uno stile partecipativo e collaborativo a fronte di una visione condivisa; si amplia il proprio potenziale di ascolto come premessa per costruire relazioni empatiche e basate sul confronto. La maternità è una palestra di scelte continue, un allenamento alla gestione della complessità che consente di sviluppare capacità di problem solving, di decision making, di organizzazione e di approccio pragmatico alla gestione. Attraverso la maternità cambia la relazione con il mondo perché si modifica la visione temporale, aumenta il senso di responsabilità per gli altri e per il futuro, allenando quindi la visione strategica e di pianificazione di lungo periodo. Se tutto questo è vero, la forma rischia però di squalificare lo stesso contenuto. Fare del ruolo di mamma e casalinga una bandiera mediatica ha un sapore retrò; la continua rivendicazione del ruolo della donna-casalinga e della donna-mamma, più che l’affermazione di un’emancipazione ormai consolidata, sembra un ritorno al passato: la maternità diviene un simbolo di «potere» esclusivo con la conseguente ricaduta di escludere da questo ruolo gli uomini e di presumere che tutte le donne possano e vogliano avere figli.

Le ricerche condotte in questi anni dal Diversity Management Lab della SDA Bocconi ci guidano a reinterpretare questo dibattito andando oltre il tema di genere. Non è più una questione di maternità, ma di genitorialità, che riguarda il cittadino organizzativo tout court e coinvolge uomini e donne, padri e madri, coppie eterosessuali e omosessuali. Una questione che non riguarda solo la nascita, ma anche la cura dei genitori anziani o dei familiari ammalati. Il sapere «prendersi cura di» è una competenza che diviene via via più necessaria, vuoi per l’aumento delle aspettative di vita, vuoi per il prolungamento dell’età lavorativa. Proprio perché più necessaria e non relegabile a un periodo specifico e transitorio della vita (quello della cura dei bambini piccoli) diviene una competenza sempre più diffusa in tutti i cittadini, uomini e donne.  Ed è questa competenza diffusa a livello sociale e successivamente traslata e valorizzata nella vita professionale che può generare una visione più lungimirante e sostenibile dell’economia e del concetto di benessere. Il tema della genitorialità ci rimanda inoltre alla necessità avvertita da chi vive nella società moderna di integrare una carica identitaria complessa e multiforme, di essere al contempo lavoratori e genitori, senza essere per questo penalizzati e considerati cittadini organizzativi di serie B. Da questa prospettiva, il tema diviene una questione di people strategy e non solo di gender diversity. Ciascuna organizzazione dovrebbe chiedersi se vale la pena dare una risposta organizzativa a un bisogno diffuso dei propri lavoratori.

Un’ultima considerazione riguarda il perché questo dibattito spesso circoscritto alle donne. La distorsione ha a che fare con la tradizionale divisione dei ruoli sociali che associa storicamente al genere femminile gli aspetti di cura e di gestione della maternità e degli affetti. Ma numerose recenti ricerche testimoniano che quest’assunto sta evolvendo velocemente e che il bisogno che streotipicamente si pensa faccia parte del vissuto femminile è in realtà un bisogno traversale che riguarda anche gli uomini.



[1]  Per un approfondimento sui temi relativi alla maternità nel mondo del lavoro si veda S. Cuomo, A. Mapelli, Maternità: quanto ci costi? Un’analisi estensiva sul costo di gestione della maternità nelle imprese italiane, Milano, Guerini, 2009.

[2] Per una lettura documentata dei fenomeni accennati in questo paragrafo (tassi di occupazione; segregazione orizzontale e verticale ecc.) si legga il rapporto ISTAT, Come cambia la vita delle donne. 2004-2014.

Cuomo Simona