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Donne & lavoro: sotto il pay gap, il problema resta la carriera
Il dibattito sul tema del pay gap è di dominio pubblico e ancora infervora gli animi suscitando sdegno rispetto a un’ingiustizia organizzativa così evidente. Prendiamo per esempio l’ultima indagine di EUROSTAT, resa pubblica da vari siti e testate impegnati sui temi della gender diversity. I dati evidenziano come le donne nei paesi EU guadagnino in media il 16 per cento in meno degli uomini. In altre parole le donne guadagnano in media 84 centesimi per ogni euro che un uomo guadagna in un’ora e questo divario cresce all’aumentare del numero dei figli. Un’altra recente notizia riguarda il quotidiano New York Times, al cui interno le minoranze sono pagate in media il 10 per cento in meno e le donne il 7 per cento rispetto a uomini nella stessa posizione.
In questo ambito vengono citate misure istituzionali simboliche (si pensi per esempio alla policy del Regno Unito, dove nel 2015 il governo ha introdotto l’obbligo per le aziende con più di 250 dipendenti di rendere pubblica la differenza di retribuzione tra uomini e donne; o alla giornata istituita dalla Commissione Europea a partire dal 2011, l’equal pay day, che rappresenta il giorno in cui si arresta il guadagno delle donne per l'anno in corso - nel 2015 è stato il 2 novembre - e così via) che hanno il pregio di generare trasparenza e ribadire l’importanza sociale di questo divario, ma non risolvono il problema a monte. Dal punto di vista sociale è innegabile infatti che le donne, essendo minori percettori di reddito, si trovino a gestire spesso una posizione di dipendenza prima di tutto emotiva, oltre che economica. Il rischio però che questi e altri articoli, se non approfonditi, normalizzino l’esistente, trasformandolo in qualcosa considerato «normale», come direbbe Durkheim.
Prendiamo per esempio un recente articolo pubblicato dal Corriere della sera sul tema del riscatto degli anni di laurea. Per rendere evidenti le modalità di calcolo sono state riportate delle «simulazioni» per due età anagrafiche diverse; in entrambi i casi esemplificativi delle modalità di calcolo le donne guadagnano sistematicamente di meno degli uomini.
Volendo uscire da questo circolo vizioso che tende ad accendere gli animi ma a normalizzare i fatti, è necessario capire le determinanti causali dei differenziali di reddito tra uomo e donna.
Proseguendo infatti nella lettura, la statistica EUROSTAT ci dice che quasi la metà delle lavoratrici tra i 25 e i 49 anni con almeno tre figli ha lavorato part-time, contro il 7,0 per cento degli uomini nella stessa situazione; quindi le donne hanno ancora meno probabilità rispetto agli uomini di avere un lavoro retribuito, tendono a lavorare meno ore, hanno retribuzioni orarie inferiori, e si concentrano in un numero minore di settori ben pagati.
Anche nell’articolo sul NY Times si legge che «le minoranze rappresentano la maggior parte dei dipendenti nei ruoli meno retribuiti e nelle posizioni più basse. Minoranze e donne sono solo una piccola percentuale della redazione e dei critici, che rappresentano il ruolo più pagato».
Uomini e donne dunque sono separati dalla carriera o meglio dalla difficoltà che il sesso femminile ancora ha a entrare nel mercato del lavoro e a raggiungere posizioni rilevanti nelle organizzazioni.
Una ricerca pubblicata dal Diversity Management Lab della SDA Bocconi School of Management nel 2010 aveva infatti già rilevato come il gender pay gap, se si considerano posizioni di uguale complessità, in Italia sia pari al 5 per cento, un dato significativo ma non allarmante.
I risultati dello studio hanno dimostrato infatti come il vero problema non sia il pay gap, quanto la strutturale asimmetria del mercato del lavoro, che presenta in modo stabile fenomeni quali il «soffitto di vetro», cioè la difficoltà da parte delle donne ad accedere a ruoli di alta responsabilità (e meglio retribuiti), e la segregazione orizzontale, per cui le donne sono in genere maggiormente impiegate in funzioni aziendali a più bassa retribuzione. Data la natura del problema, si prospettano due livelli o spazi di azione: soluzioni a livello organizzativo e soluzioni a livello individuale.
La prima opzione di intervento riguarda l’attuazione di «buone prassi» che guidino le politiche retributive, ma anche gestionali e di sviluppo, a partire da una presa di consapevolezza maggiore del tema in esame da parte del management.
La seconda opzione riguarda lo sviluppo di percorsi formativi e di sviluppo per far sì che le donne, superando le difficoltà soggettive, migliorino la propria capacità di affermarsi valorizzando le specifiche potenzialità. Questa lacuna è particolarmente grave oggi poiché, stando ai dati fin qui disponibili, negoziare non è più un lusso, ma una necessità, per tutti.