Articolo 3

06/04/2016 Stefano Basaglia e Simona Cuomo

Se il lavoro รจ per sole mamme

Sul sito del quotidiano La Stampa leggiamo: «Pappe, fiabe e passeggini: l’azienda testa i prodotti e assume solo mamme». Si tratta di un articolo dedicato a Fattore Mamma, un’azienda di servizi (di marketing e comunicazione) per il mercato delle «mamme».

Il progetto imprenditoriale nasce dall’esigenza della fondatrice Jolanda Restano di poter conciliare il lavoro e i figli (tre, nel suo caso). Jolanda si è dunque inventata un lavoro per stare vicina ai bambini: laureata in farmacia, era impiegata in un’azienda medica che non le ha concesso l’orario flessibile. Jolanda ha deciso di rischiare licenziandosi, ma non solo: ha fatto del suo bisogno, che accomuna quello di tante mamme, un business.

Nasce un’impresa che identifica la sua mission e la sua vision in quel bisogno, in quel mercato - quello dell’infanzia -, in quelle consumatrici - le mamme. Un’impresa che anche sul fronte dell’organizzazione interna non tradisce la sua missione e gestisce le sue lavoratrici con flessibilità: l’orario di lavoro termina alle 16:30, per consentire a tutte di andare a prendere i propri figli a scuola. Una case history interessante che ha attirato l’attenzione dei media.

A chi come noi si occupa della gestione della diversità dei lavoratori sorge, però, un dubbio spontaneo: l’apparente totale mancanza di diversità di questa azienda. È possibile che l’articolo esageri su come vengono gestite concretamente le politiche di assunzione dell’azienda: nel titolo si legge «assume solo mamme», nel sito leggiamo, invece, «Il team di Fattore Mamma è costituito per lo più da professioniste mamme». Tra «solo» e «per lo più» c’è una differenza. Rimane il fatto che il messaggio veicolato dai media che si sono occupati del caso è che l’identità di ruolo di essere «mamma» rappresenta il fattore discriminante per essere assunte e per lavorare nell’azienda («Segni particolari: vengono assunte soltanto le mamme»). Certamente è necessario distinguere tra le attività di staff (attività gestionali e/o amministrative) e quelle di line direttamente legate ai servizi erogati dall’azienda. Per le prime «essere mamma» non dovrebbe avere nessun peso e siamo sicuri che non l’abbia. Per le secondo attività, «essere mamma» potrebbe essere un punto di forza (chi meglio di una madre conosce i bisogni di una madre?).

In un’ottica di Diversity Management, però, questa univocità potrebbe essere anche un punto di debolezza, poiché limita le potenzialità di creatività e innovazione del team. è noto, infatti, che team omogenei siano più inclini a decisioni conformiste e che una maggiore eterogeneità favorisca il pensiero divergente e propositivo. Da questo punto di vista: siamo sicuri che una «donna-non-mamma» non potrebbe dare un contributo? Siamo certi che un «uomo-padre» o «uomo-non-padre» non potrebbe aggiungere un punto di vista diverso su determinati temi? Al di là, poi, del caso, specifico, colpisce come la stampa tratti un caso come questo in toni parossisticamente positivi, non facendo balenare neppure il dubbio che continuare a confinare le donne nel mondo dell’infanzia, dei pannolini e della cura dei figli contribuisca solo ad alimentare una cultura patriarcale che non riesce veramente a essere superata. Solo il superamento di questa cultura, infatti, potrà consentire un miglior equilibrio di genere nella società, nel mercato del lavoro e nelle aziende. 

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