Articolo 3

21/12/2022 Stefano Basaglia

Ridotti al silenzio: i temi LGBTQI+ in Qatar

L’ultima, controversa edizione dei mondiali di calcio solleva ancora una volta questioni legate al tema dei diritti, dell’inclusione e della lotta alle discriminazioni. Assecondando le richieste (e imposizioni) del Qatar, la FIFA ha rinunciato a sfruttare il campionato come opportunità di difesa e promozione di quei diritti che alcuni Paesi non intendono riconoscere, ma che si guardano bene dal rischio di perdere un’occasione di business come la World Cup.

 

Domenica 18 dicembre 2022 si è conclusa la ventiduesima edizione della Fifa World Cup, svoltasi in Qatar. Si è trattato di un’edizione molto controversa, dal momento che il Qatar è una dittatura che calpesta i più elementari diritti sociali e umani e in cui non vi è separazione tra Stato e religione. In particolare, è in atto una grave discriminazione nei confronti delle donne, delle persone LGBTQI+ e delle minoranze etniche. Già nel 2010, quando ci fu l’assegnazione, il quotidiano La Repubblica commentava la decisione della FIFA in questi termini: «Ha vinto il business. La storia del calcio è stata calpestata. I mondiali del 2018 saranno organizzati dalla Russia, quelli del 2022 dal Qatar»[1].

Le questioni legate ai diritti, alla diversità e all’inclusione assumono sempre più una valenza geopolitica. Gli Stati, le associazioni, le organizzazioni e le imprese si trovano a dover decidere se e come «fare affari» con paesi e in paesi che negano i diritti umani. In questo campo entrano in gioco diverse questioni: il rapporto tra dimensione globale e locale, il tema delle specificità dei contesti, i processi di modernizzazione che potrebbero innescare un cambiamento dei contesti arretrati sul fronte dei diritti, gli scandali di corruzione ecc. Il Qatar stesso è agli onori della cronaca non solo per la Coppa del Mondo, ma anche per la presunta corruzione di membri del Parlamento europeo. Qui non cercheremo di dipanare questa intricata matassa di temi e questioni, ma ci focalizzeremo esclusivamente sulla FIFA.

Quella relativa all’edizione del 2022 della FIFA World Cup non è la prima assegnazione controversa. Tra le tante possiamo ricordare la Coppa del Mondo del 1934 all’Italia fascista, l’assegnazione del campionato all’Argentina di Videla nel 1978 e infine, tra le più recenti, quella alla Russia per il 2018. Vogliamo qui capire, tuttavia, se e come la FIFA – al di là della decisione presa nel 2010 – avrebbe potuto gestire meglio il tema dei diritti. La risposta è sì. In particolare, avrebbe potuto rendere la Coppa del Mondo un’occasione per mostrare a tutti le diversità e la loro importanza. Possiamo prendere a titolo di esempio il modo in cui è stata trattata la questione dei diritti delle persone LGBTQI+. Il Qatar fa dell’omofobia e della transfobia un principio di Stato. L’ambasciatore della Coppa del Mondo del Qatar, in un’intervista alla televisione tedesca, ha dichiarato che i calciatori e tifosi LGBTQI+ avrebbero dovuto accettare le regole qatariote, e che l’omosessualità rappresenta un comportamento haram, cioè «vietato»: «You know what haram means? […] I am not a strict Muslim but why is it haram? Because it is damage in the mind»[2].

Ilga, l’associazione internazionale per i diritti LGBTQI+, ha più volte espresso alla FIFA le sue preoccupazioni per le discriminazioni nei confronti delle persone LGBTQI+[3]. Sette nazionali di calcio (Belgio, Olanda, Galles, Inghilterra, Svizzera, Danimarca e Germania) avevano comunicato l’intenzione di scendere in campo facendo indossare al proprio capitano la fascia arcobaleno «One Love». La FIFA ha ufficialmente vietato l’utilizzo della fascia. Se qualcuno l’avesse indossata avrebbe rischiato una multa o un’ammonizione. Le sette nazionali hanno così risposto alla FIFA: «erano pronti a pagare multe che normalmente si applicherebbero alle violazioni dei regolamenti sui kit e avevamo preso l’impegno di indossare la fascia One Love al braccio. Tuttavia, non possiamo rischiare che i nostri giocatori vengano ammoniti, rischiando di dover lasciare il campo». «Siamo molto frustrati dalla decisione che riteniamo non abbia precedenti. Abbiamo scritto alla Fifa a settembre informandola del nostro desiderio di indossare la fascia da braccio One Love per sostenere attivamente l’inclusione nel calcio e non abbiamo avuto risposta. I nostri giocatori e allenatori sono delusi perché sono forti sostenitori dell’inclusione e mostreranno il loro supporto in altri modi»[4]. Julia Ehrt, direttrice esecutiva di Ilga Mondo, e Henry Koh, direttore esecutivo di Ilga Asia, hanno scritto una lettera aperta a Gianni Infantino, presidente della FIFA, in cui riportano casi di violazione delle libertà dei giornalisti e dei tifosi[5]. I direttori, inoltre, sottolineano come la FIFA sia in favore delle politiche per diritti umani solo a parole, salvo poi non implementare queste politiche nella pratica. Concludono scrivendo: «Se lo sport ha il potere di unire le persone, questa Coppa del Mondo maschile sta fallendo in modo spettacolare. Confidiamo che la FIFA possa cambiare rotta, d’ora in poi, che possa fare tutto ciò che è in suo potere per impegnarsi in modo significativo per i diritti umani per tutti, ricostruendo la fiducia che questi giorni e questi mesi hanno così seriamente offuscato»[6].

La FIFA ha fallito nel rendere la Coppa nel Mondo un’occasione per provare a innescare un cambiamento in Qatar e in altri paesi simili, per ricordare che non necessariamente far prevalere il «business» debba significare calpestare i diritti umani e, come nel caso del Qatar, la vita delle persone. L’ultimo sfregio è stato concedere che l’emiro regnante facesse indossare al capitano della squadra vincitrice il bisht, un mantello tradizionale simbolo della cultura araba e musulmana[7]. La fascia arcobaleno simbolo dei diritti della comunità LGBTQI+ no, il mantello sì: due pesi e due misure. Ci auguriamo che la FIFA in futuro non commetta gli stessi errori e che eviti di assegnare la Coppa a Stati in cui ad alcune persone non è accordato il diritto a esistere, o che per lo meno definisca regole perché queste persone non si sentano escluse. D’altronde, spetta allo Stato che voglia proiettarsi in una dimensione internazionale l’onere di integrarsi alle culture altrui, aprendosi (nel nostro caso) anche alle diversità. Non devono certo essere la comunità internazionale e le sue nazioni più progredite sul fronte dei diritti ad arretrare sacrificando i principi di uguaglianza e di lotta alle discriminazioni. Se gli Stati non desiderano «aprirsi», dovrebbero probabilmente evitare di partecipare a queste competizioni.

La coerenza tra quanto dichiarato e quanto fatto non riguarda solo la FIFA, ma anche gli Stati e altre organizzazioni come imprese, musei, istituzioni culturali e università. Chi si proclama a favore delle diversità non può poi calpestare – nelle decisioni, nei fatti e nelle azioni – i valori e i principi su cui poggia l’inclusione. Sarà interessante vedere a chi saranno assegnati l’Expo 2030 e la ventiquattresima edizione della Coppa del Mondo, prevista per lo stesso anno. Alcuni dicono che tra i paesi favoriti vi sia l’Arabia Saudita[8], un altro campione di diritti e libertà. Staremo a vedere.



[1] F. Bianchi, «I nuovi padroni. I mondiali a Russia e Qatar: anche Obama contro Blatter», La Repubblica, 3 dicembre 2010.

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