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South working: la nuova frontiera dello smart working in Italia
Il south working rappresenta un nuovo modo di pensare il lavoro al di là dell’emergenza sanitaria. Tale modello, oltre a garantire ai lavoratori un adeguato bilanciamento tra vita privata e vita professionale, ha il merito di restituire valore sociale ed economico a territori molto spesso marginalizzati.
Trovare un lavoro coerente con il proprio titolo di studio e fare carriera lavorando al Sud sembrava una possibilità remota e improbabile fino a qualche anno fa. L’emergenza sanitaria e il ricorso allo smart working hanno dato l’opportunità a molti lavoratori di lasciare le metropoli del Nord e Centro Italia per rientrare, almeno temporaneamente, nelle regioni del Sud. In questo contesto, nasce un’associazione, South Working-Lavorare dal Sud, «un progetto di promozione sociale che stimola e studia il fenomeno del lavoro agile da una sede diversa da quella del datore di lavoro o dell’azienda» e che si pone l’obiettivo di favorire lo sviluppo sociale ed economico di aree storicamente marginalizzate[1].
I south worker sono quindi ispirati da un’alta responsabilità sociale che si traduce nella volontà e nell’impegno di restituire valore al territorio in cui si sceglie di passare alcuni periodi della propria vita professionale. Il bisogno di trovare un equilibrio di vita più soddisfacente si integra con il bisogno di contribuire positivamente alla realtà locale scelta, e questo distingue i south worker dai nomadi digitali. Soprattutto per questo motivo il territorio non può essere considerato un dormitorio ma, all’opposto, un luogo in cui riflettere sulla propria identità personale e sociale a tutto tondo. E questo nasce dalla possibilità di creare confronto, apprendimento e sinergie utili sia al singolo sia alla collettività.
Abbiamo intervistato Elena Militello, Presidente e una dei sette soci fondatori dell’associazione South Working.
Come nasce il progetto South Working?
Siamo nati a marzo 2020 e ci siamo costituiti come Associazione nel successivo agosto, grazie a un finanziamento e al supporto di Fondazione per il Sud. Siamo un gruppo di accademici, ricercatori ma anche professionisti, manager e imprenditori fra i 25 e i 40 anni, per lo più provenienti dal Sud Italia. Avevamo in comune il fatto di avere lasciato i territori in cui eravamo cresciuti, ma sempre con una certa nostalgia: ci immaginavamo di poter rientrare in quei luoghi solo con la pensione. E invece, per la prima volta durante il lockdown, abbiamo capito che questa scissione forzata tra il luogo di lavoro e il luogo in cui desideravamo vivere, almeno per una parte dell’anno, poteva essere superata. Abbiamo iniziato condividendo le nostre storie e ascoltando quelle di lavoratori che, come noi, avevano lasciato le loro terre a malincuore. Siamo partiti in 7 e oggi il gruppo si compone di 80 volontari.
Quale idea avete sviluppato attraverso l’elaborazione delle vostre storie?
L’esperienza vissuta durante il lockdown ci ha portato a riconsiderare le nostre priorità: da un lato, la ricerca di una migliore qualità della vita e un adeguato bilanciamento tra vita privata e vita professionale, poiché molti di noi lavoravano con ritmi piuttosto stressanti; dall’altro, l’idea di voler restituire qualcosa ai nostri territori. Ci siamo infatti resi conto che, man mano che andavamo via, aumentavano i divari economici e sociali e che, allontanandoci dal Sud, non contribuivamo in nessun modo a limitarli. La missione che fin da subito ci ha ispirati e convinti è stata contribuire a superare i divari tra Nord e Sud Italia, tra metropoli urbanizzate e le molteplici municipalità non urbanizzate del nostro Paese. L’idea è che periodi di lavoro agile dalle regioni marginalizzate possano contribuire al loro miglioramento in due modi: iniettando liquidità immediata derivante dallo spendere il proprio stipendio nelle aree marginalizzate; ma soprattutto attraendo nuovi investimenti per il recupero di aree immobiliari inutilizzate, per la creazione di nuovi sistemi di innovazione sociale e start up, per la partecipazione ad associazioni locali. Questa idea di libertà e di restituzione ci distingue dal fenomeno dei nomadi digitali. Abbiamo avuto così l’idea di costituire l’associazione e di creare una rete: per entrarci è necessario aderire alla nostra carta di valori che sottolinea questa idea di restituzione nei confronti dei territori in cui si sceglie di vivere, e non un semplice sfruttamento del luogo in cui la vita costa di meno. Inoltre, chiediamo che il lavoro agile avvenga negli spazi di coworking, da noi definiti «presidi di comunità», e non sempre da casa, per evitare il senso di estraneità e isolamento, per favorire occasioni di confronto, collaborazione e quindi il sorgere di nuove idee imprenditoriali e di proposte per il territorio; in definitiva, per evitare una forma di delocalizzazione sterile.
Come vi siete organizzati nell’associazione?
L’associazione si è data sin da subito una carta dei valori e lavora su tre pilastri: la sensibilizzazione delle istituzioni, tramite azioni di advocacy ai livelli di governo nazionale, regionale e locale; lo studio interdisciplinare del fenomeno, grazie a un Osservatorio, e soprattutto la creazione di reti tra realtà di innovazione sociale che si riconoscono nella definizione di «presidi di comunità». Grazie ai fondi ricevuti dalla Fondazione per il Sud l’anno scorso abbiamo potuto assumere dei collaboratori per un anno e darci una struttura che è stata utile per portare avanti il nostro progetto oltre alla fondamentale rete di volontari che ci caratterizza.
Cosa intendete esattamente per «south»?
Il Sud certamente, ma anche le aree interne, ossia tutti i territori che sono lontani dai servizi e dalle infrastrutture dei grandi distretti urbani e, anche all’interno dei grandi distretti urbani, le periferie, le zone meno servite. Nel rapporto SVIMEZ 2020 è stata calcolata una platea di circa 100.000 lavoratori e lavoratrici potenzialmente interessati/e a questo modello di lavoro; molti di più di chi ha trascorso il lockdown nelle proprie abitazioni di origine. A differenza dei grandi distretti produttivi, per le aree marginalizzare si teme una decrescita, seguita da un lungo periodo di stagnazione.
Quali sono stati i primi risultati?
Abbiamo un sito in cui ci si può registrare e pagine social molto attive in cui abbiamo raccolto le storie di molti lavoratori. Abbiamo partecipato a eventi, e stipulato molti accordi e protocolli di intesa con i vari portatori di interesse sia con le aziende, per segnalare persone che sono interessate a lavorare in south working, sia con le istituzioni, come i Comuni e le Regioni. Le nostre azioni di comunicazione e di relazione con i vari stakeholder hanno voluto normalizzare il south working come nuovo modo di pensare il lavoro al di là dell’emergenza sanitaria. Per fare questo, abbiamo attivato un centro di ricerca interdisciplinare collaborando con università e centri di ricerca un po’ di tutta Italia, e abbiamo recentemente pubblicato il nostro primo volume, edito da Donzelli.
Quali obiettivi per il futuro?
Un ulteriore obiettivo che è diventato parte integrante della nostra missione è creare sinergie fra i vari portatori di interesse: in questi territori ci sono spesso imprese di innovazione sociale ma che non si parlano tra loro e non riescono ad apprendere in maniera congiunta. Crediamo sia importante fare incontrare persone, aziende e territori sia nel pubblico sia nel privato. Laddove arriva il privato sono stati creati e aperti degli spazi coworking; laddove questo non arriva è importante far sì che i territori possano aprire spazi di lavoro comune in sale del patrimonio storico culturale, attualmente inutilizzate o sottoutilizzate. Tre sono i prerequisiti che richiediamo ai territori: una buona connessione a internet con almeno venti mb in download; una distanza non maggiore di 2 ore dai mezzi di trasporto (in particolare aeroporti e stazioni) e la presenza di spazi di coworking. Questo lavoro ci ha consentito di presentare degli emendamenti al «Testo unico sullo smart working» approvato a marzo dalla Commissione lavoro della Camera dei Deputati. Questi valori comuni, per chi aderisce alla nostra associazione, servono per stimolare aziende e territori a sviluppare un modello di smart working complessivo che favorisca a sua volta lo sviluppo: non solo devi lavorare con una rete efficiente, ma anche definire dei collegamenti funzionali e degli spazi di lavoro condivisi. Poiché si va verso un modello di lavoro ibrido è importante che i territori si attrezzino coerentemente. Ci siamo anche immaginati dei requisiti di secondo livello, come per esempio richiedere ai territori di creare servizi per l’infanzia o per le persone più anziane; la costruzione di sale per il lavoro comune arredate in maniera efficiente ed ergonomica, sale audio isolate, una rete internet dedicata. Stiamo inoltre realizzando con la Fondazione per il Sud un progetto per il tema arredi, che permetta sia ai Comuni ma anche ai privati interessati di ottenere delle agevolazioni.
Che tipo di relazione sviluppate con i territori?
Non vogliamo essere un ente certificatore per i Comuni; con loro stiliamo un protocollo d’intesa e facciamo un monitoraggio minimo che possa legittimare il Comune a chiamarsi partner della nostra associazione. Quando le amministrazioni locali hanno delle difficoltà nell’adeguarsi allo standard richiesto, li supportiamo a reperire i fondi attraverso la partecipazione a dei bandi. Cerchiamo di spingere i Comuni a realizzare le infrastrutture necessarie progettualmente in un tempo adeguato e pianificato; in molti casi li aiutiamo, per esempio, a individuare una sala inutilizzata in una biblioteca o in un museo civico. Piano piano i Comuni stessi riescono a recuperare quanto necessario anche con la partnership di associazioni locali. Quindi l’idea è sempre quella di una governance territoriale fatta su misura per la realtà specifica. Inoltre non vogliamo privilegiare i Comuni che hanno già le infrastrutture, ma supportare anche quelli che sono lontani dai requisiti richiesti. Il nostro è un progetto di inclusione che ha lo scopo di ridurre le disuguaglianze. Per questo non volgiamo privilegiare alcuni Comuni rispetto ad altri. Sta accadendo che un buon numero di richieste, fra le moltissime che riceviamo, arrivino da lavoratori che ci chiedono un supporto per stimolare un certo Comune, che magari è piuttosto distante dai requisiti che richiediamo. Per esempio, personalmente mi sono occupata di far associare il Comune da cui proveniva mia nonna e si tratta di un Comune che non avrebbe altrimenti partecipato. L’idea finale sarebbe poi quella che abbiamo realizzato in Sicilia con Anci, l’Associazione dei Comuni siciliani; abbiamo siglato con Anci Sicilia un protocollo d’intesa per cui è stata la stessa Anci a invitare tutti i Comuni ad aderire alla nostra associazione. Questo crea dinamismo e una competizione positiva fra le varie territorialità. Più Comuni aderiscono più si può favorire lo sviluppo sociale ed economico di un territorio. Un ulteriore obiettivo sarebbe quello di stilare le FAQ con le richieste frequenti con avvocati, giuslavoristi, architetti ecc. per rispondere alle questioni più frequenti e poi, auspicabilmente, l’idea sarebbe di mettere in rete anche gli stessi consulenti per offrire un supporto specializzato. A ogni modo, poiché il nostro obiettivo è di contribuire allo sviluppo sociale, vogliamo innanzitutto stimolare la possibilità di creare nuova impresa o portare sedi di imprese nei coworking o addirittura spingere le imprese a investire in questi luoghi o crearsi la propria impresa come start up attraverso il dialogo e la collaborazione. Il nostro metodo è contribuire al lavoro dal basso condividendo i bisogni dei portatori di interesse.
Quali le vostre azioni con le imprese e le loro aAssociazioni?
Quando diciamo che la nostra missione è lavorare nelle aree marginalizzate vogliamo far sì che i Comuni sviluppino un ambiente territoriale attrattivo per i lavoratori e il nostro target sono le comunità ma anche le istituzioni locali per far approvare leggi e delibere a livello regionale. Abbiamo sicuramente come target le aziende al fine di convincerle ad adottare un modello di smart working più aperto e scevro da vincoli. Per esempio, stiamo collaborando con Randstad, che ha deciso di inserire un filtro a supporto del south working nella domanda e nell’offerta di lavoro e in tre giorni hanno avuto 700 richieste. Abbiamo dialogato molto con le associazioni di direttori del personale che di recente hanno stimato che circa un 15% di lavoratori continueranno a fare periodi di lavoro agile. Il nostro obiettivo non è svuotare le città ma dare la possibilità a chi lo desidera di trascorrere dei periodi fuori dalle grandi città.
Chi sono i lavoratori potenzialmente interessati?
Da un nostro sondaggio è emerso che attualmente sono persone altamente qualificate, con una vita professionale già avviata, fortemente motivate nella propria carriera. Quindi non si tratta di un lasciare tutto e andare a vivere in campagna. E infatti molti di noi rientrano quando è necessario: una settimana al mese, due giorni a settimana… dipende.
Il fatto che le prime persone che hanno aderito al south working siano lavoratori altamente qualificati e in carriera non crea un’ulteriore categoria di privilegio rispetto alla maggioranza che invece, per altri vincoli, non può aderire a questa idea progettuale?
Sicuramente è più probabile che si associ una persona agiata, in carriera, tipicamente un lavoratore della conoscenza o dei servizi, che ha già una sua rete sul territorio. Ma la nostra idea è di sviluppare anche le aree meno fortunate e meno dotate di servizi nelle grandi città e in generale attrarre, almeno per dei periodi ogni mese o ogni anno, in queste aree marginalizzate anche chi è andato all’estero o addirittura stranieri che grazie alle loro aziende hanno una maggiore propensione alla flessibilità. Lavoratori che siano però convinti che possano stare in questi territori non come nomadi digitali, ma come cittadini.
Quali critiche vi sono state mosse?
Talvolta, alcune aziende locali si sono lamentate del fatto che lo smart working permetta ai talenti locali di accedere a contratti di lavoro più vantaggiose senza lasciare i territori. Quindi anche i talenti locali, che per motivi familiari o personali non si erano allontanati, oggi possono competere. Gli imprenditori locali sentono quindi che sono chiamati a competere in un mercato nazionale e avvertono il rischio di una sottrazione dei talenti che magari non si sentono riconosciuti nelle aziende locali. Un’altra critica riguarda lo spopolamento delle grandi città: ma su questo c’è da dire che non tutti sono disposti o vogliono lavorare da aree marginali o da spazi di coworking secondo il nostro modello. Ci sono persone che vogliono andare a lavorare in ufficio e che preferiscono lavorare in maniera tradizionale. Il punto è creare le opportunità e contemplare diverse modalità di lavoro in base ai diversi bisogni dei lavoratori.