Articolo 3

29/06/2022 Stefano Basaglia

Il mese dell’orgoglio LGBTQI+: l’importanza delle parole, dell’identificazione e dell’inclusione

Storicamente il mese dell’orgoglio LGBTQI+ è dedicato a ricordare chi ha avviato la lotta per il diritto a essere riconosciuti come «soggetti». Tuttavia, la strada dell’eguaglianza è ancora molto lontana: a testimoniarlo vi è l’uso non appropriato, anche su importanti mezzi di informazione, di termini quali «scelte sessuali», «matrimonio», ma anche la reticenza a utilizzare le parole «omosessuale» e/o «gay».

 

In occasione del mese dell’orgoglio LGBTQI+ vogliamo sottolineare l’importanza di alcuni temi: l’uso delle parole, l’identificazione e l’inclusione.

La rivolta di Stonewall a New York nel giugno del 1969 diede l’avvio al movimento omossessuale moderno e negli Stati Uniti il movimento scelse di auto-definirsi con il termine «gay». L’espressione «gay man» indicava un uomo «lussurioso» e/o «depravato», mentre «gay woman» indicava una donna «allegra», una donna di «facili costumi». Già negli anni Venti del secolo scorso negli Stati Uniti il termine veniva utilizzato, sia dagli eterosessuali, sia dagli stessi omosessuali, per indicare le persone omosessuali e, quindi, per indicare e indicar-si. Il movimento scelse «gay» perché ci si voleva liberare dalla stigmatizzazione e uscire dal recinto medico-giuridico associato al termine «omosessuale». Le soggettività, poi, sono progressivamente aumentate, si sono differenziate, ma chiamarsi e riconoscersi dovrebbero ancora essere aspetti centrali di un movimento e/o di una comunità. Il mese dell’orgoglio è proprio dedicato a ricordare chi ha avviato la lotta per il diritto a essere riconosciuti come soggetti. Purtroppo, un’intervista e un fatto di cronaca recenti sembrano averlo dimenticato.

Il Corriere della Sera il 1° giugno ha pubblicato un’intervista, a cura di Walter Veltroni, al giornalista Alberto Matano in occasione della sua unione civile[1]. Nel testo dell’intervista ci sono alcuni aspetti che denotano come le tematiche LGBTQI+ non siano ancora ben comprese in Italia. Partiamo dall’uso delle parole. Nell’intervista si parla ancora di «scelte sessuali», quando, invece, per definire le prime lettere dell’acronimo LGBTQI+ sia meglio parlare di «orientamento sessuale». L’espressione scelte sessuali viene utilizzata sia dall’intervistatore, sia dall’intervistato. In questo caso siamo proprio all’abc di come ci si approccia ai temi LGBTQI+. Nell’intervista, inoltre, si usa il termine «matrimonio». È un termine scorretto perché in Italia non è previsto il matrimonio egualitario, ma solo l’unione civile. Il legislatore italiano, infatti, preferì percorrere, per le coppie lesbiche e gay, la strada di un istituto diverso dal matrimonio. Ricordiamo che il 6 ottobre del 2015 è stato depositato presso il Senato della Repubblica (Atto Senato n. 2081) il disegno di legge sulla «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze». La versione definitiva della legge fu approvata il 9 maggio del 2016 dalla Camera dei Deputati. Questa legge non sana la discriminazione nei confronti dei cittadini LGBTQI+. Innanzitutto, la legge definisce l'unione civile tra persone dello stesso sesso «quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione» e non richiama l’articolo 29 (l’articolo dedicato al matrimonio). Rappresenta, quindi, una forma di segregazione[2]: «Come per i neri mezzo secolo fa [negli Stati Uniti] – obbligati a utilizzare carrozze riservate sui treni e posti particolari nelle assemblee e nei luoghi pubblici – oggi in molti paesi [tra cui l’Italia] le coppie gay e lesbiche […] sono costrette, ad alloggiare su una carrozza diversa, a loro dedicata e con apposito nome». Quindi, utilizzare il termine «matrimonio» al posto di «unione civile» è una forma di mistificazione. 

Inoltre, in tutto il testo dell’intervista non compaiono le parole «omosessuale» e/o «gay». Compare, invece, la parola «eterosessuale». In particolare, l’intervistato definisce il suo passato «vita eterosessuale», ma non vuole definire il suo presente, basato sull’unione civile con una persona dello stesso sesso: «La mia stabilità è stata una persona, non un’identità […] Per me, in ogni campo, i recinti sono l’antitesi della libertà. Ho capito negli anni che le persone hanno bisogno, per rassicurare sé stesse, di dare a te o anche di assegnare a sé stessi una categoria, una casella, un’appartenenza, sessuale, politica, anche sul lavoro». Ognuno, ovviamente, è libero di identificarsi come crede. Colpisce che le persone eterosessuali non abbiano mai timore di essere etichettate come tali, mentre alcune persone attratte, sessualmente e/o affettivamente, da persone dello stesso sesso, preferiscano non chiamarsi. Colpisce ancora di più il fatto che in questa intervista l’intervistatore sia stato il segretario di uno dei principali partiti della sinistra italiana (in teoria, quindi, tra i più vicini ai temi della comunità LGBTQI+) e l’intervistato sia un giornalista che dovrebbe fare dell’uso delle parole la cifra del proprio mestiere. Da questo si misura anche l’arretratezza del nostro Paese.

Chiudiamo questo post con il fatto di cronaca che citavamo all’inizio. Gli organizzatori della marcia dell’orgoglio LGBTQI+ di Bologna, che si è svolta il 25 giugno 2022, hanno chiesto all’associazione Polis Aperta, l’associazione LGBTQI+ di lavoratori di forze di polizia e forze armate[3], di non partecipare alla marcia con loghi e striscioni, ma di limitarsi a partecipare in modo anonimo[4]. Questa richiesta ha suscitato polemiche sui media e sui social media. Dal nostro punto di vista è una forma di esclusione. L’inclusione non è semplice: bisogna essere pronti a includere differenti soggettività e all’interno del vasto ed eterogeneo movimento LGBTQI+ c’è spazio per tante minoranze sessuali. Ci dovrebbe essere spazio anche per chi definisce la propria identità in modo intersezionale, intersecando la propria identità sessuale con quella professionale. È un bene che all’interno dell’esercito e delle forze di polizia emergano le identità LGBTQI+ e che esse siano visibili nelle marce dell’orgoglio LGBTQI+. Questa visibilità dovrebbe contaminare le caserme, reali e virtuali, di tutt*.

La strada dell’eguaglianza è ancora molto lontana: dobbiamo ancora imparare a utilizzare i termini corretti, senza il timore di identificarci con un’identità più ampia del nostro semplice «io» ed essere pronti a includere soggettività differenti.

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