Articolo 3

25/05/2022 Simona Cuomo

Le contraddizioni della leadership inclusiva: il caso Elisabetta Franchi

I leader, oltre a raggiungere gli obiettivi aziendali, dovrebbero avere un obbligo morale nei confronti della comunità che servono. Per questo motivo, le loro parole non possono mai essere pronunciate a caso né possono essere considerate una gaffe cui rimediare il giorno dopo. Emblematico da questo punto di vista il discorso del 4 maggio di Elisabetta Franchi, imprenditrice di successo e Cavaliere della Repubblica.

 

Nell’immaginario collettivo ci si aspetta dalle donne un’interpretazione del ruolo «femminile» improntata a valori e comportamenti di ascolto, empatia e inclusione, coerenti cioè all’omonima categoria. In questo filone di pensiero si inseriscono le recenti dichiarazioni del Presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato: «Quello che sta accadendo con il conflitto russo-ucraino è pura follia. Sono convinto che se ci fossero più capi di governo donne una follia come questa non la vedremmo»[1].

Questa lettura, frutto di una visione essenzialista del maschile e del femminile (ci si aspetta cioè in modo stereotipico che tutte le donne siano più femminili e gli uomini più maschili) non permette di osservare che, per esempio, Margaret Thatcher entrò in guerra con l’Argentina perché furono invase le isole Falkland[2] e, per arrivare alla cronaca più recente, che Elisabetta Franchi ha fatto dichiarazioni che di «femminile» hanno molto poco. Il suo intervento del 4 maggio nel teatro della Torre PwC Italia di City Life a Milano, si inserisce in un dibattito volto a sostenere il lavoro femminile nel settore della moda, promuovendo la presenza delle donne nelle aziende della filiera italiana, in particolare nei ruoli apicali. La stessa Franchi ha fatto della sua storia di self made woman un modello e uno stimolo all’imprenditoria femminile, a tal punto che lo scorso giugno era stata nominata Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica[3]. Le sue parole, ormai diventate virali[4], colpiscono quindi per due ordini di motivi: per il suo ruolo e per il contesto in cui sono state pronunciate.

Il primo punto di riflessione è che Elisabetta Franchi ha una posizione di leadership sia nella società sia nel mercato del lavoro. Alcuni hanno commentato che la Franchi ha semplicemente detto quello che molti pensano e dicono. Quindi perché criticarla? I leader non sono però neutri ma hanno, per ruolo, la responsabilità di costruire una cultura aziendale e manageriale sia agevolando il cambiamento attraverso la proposizione di nuovi valori, sia ribadendo i valori fondamentali di uno status quo. Quindi, le parole di un leader non possono mai essere pronunciate a caso né possono essere considerate una gaffe  cui rimediare il giorno dopo[5]. Il leader, oltre a raggiungere gli obiettivi aziendali, dovrebbe avere un obbligo morale nei confronti della comunità che serve, poiché senza di essa non esisterebbe. La caratura morale di leader nasce dal riconoscere, riflettere sui propri valori e le proprie convinzioni integrandoli nella propria identità. Solo attraverso questo percorso interiore il leader può essere autentico e credibile. Il discorso di Elisabetta Franchi potrebbe aver peccato di inconsapevolezza (un po’ come accadde a Guido Barilla[6]), essendo stato pronunciato senza averci pensato. Anche accettando la buona fede, la reazione della comunità indica come l’inconsapevolezza non possa essere considerata attributo di un leader, perché le sue parole non sono mai neutre e senza effetti. Se, all’opposto, le parole di Elisabetta non fossero invece totalmente inconsapevoli, i valori proposti avrebbero un sapore di restaurazione e di antico. Per questo l’attacco nei suoi confronti è stato feroce. Ha proposto una cultura del lavoro fordista, legata alla presenza, al total work; ha proposto un modello di lavoratore neutro, senza connotazioni sociali, in grado di esprimere il miglior contributo e ripagare così la fatica e la generosità dell’imprenditore. Un’idea di lavoro che non risponde più ai bisogni e ai valori di molti lavoratori di oggi; una visione del lavoro che è stata ampiamente superata sia dai risultati di ricerca in ambito manageriale, sia dal nascere di nuovi modelli organizzativi improntati sulla flessibilità spazio-temporale e su una leadership volta a creare fiducia, partecipazione e responsabilità verso l’obiettivo, indipendentemente dal conteggio delle ore lavorate.

Il fenomeno delle «grandi dimissioni»[7] insegna infatti che i lavoratori hanno cambiato la gerarchia dei propri valori e il modo con cui pensano alla vita e al lavoro e a ciò che si aspettano da entrambi. Le ragioni di tipo economico, seppur importanti, lasciano spazio a ragioni di tipo emotivo, motivazionale e sociale: i lavoratori vogliono sentirsi apprezzati e non parte di una transazione; vogliono essere considerate persone e non risorse, profili o algoritmi. Vogliono un’organizzazione che si prenda cura delle relazioni e che abbia a cuore il benessere psico-fisico delle persone; un’organizzazione che non discrimina ma include e che gestisce con equità e giustizia ogni lavoratore.

Il secondo punto di riflessione riguarda il contesto in cui la comunicazione della Franchi è avvenuta: un convegno pubblico sul divario di genere, ovvero sull’esclusione delle donne dal mercato del lavoro. Per affrontare questo tema con dignità e allontanarlo dall’ormai imperante retorica semplicistica e improduttiva, abbiamo bisogno di riflessioni più mature e non di frasi fatte e pregiudizievoli come quelle che sono state pronunciate. È importante, in un discorso, accettare posizioni divergenti anche su un tema, come quello dell’equità di genere, in cui dati non lasciano ombre sulla sua oggettività[8], se sostanziate e approfondite. Appellarsi alla maternità e attribuire a questo ruolo un presunto minor impegno da parte delle lavoratrici mamme, non è un argomento fondato. Il vizio più pesante del ragionamento esposto dalla Franchi è il non aver parlato di genitorialità a tutto tondo. La genitorialità riguarda non solo i papà delle coppie eterosessuali, che sono quelle a oggi riconosciute dalla cultura del sistema, ma l’assunzione di un ruolo di cura da parte di chi, al di là del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere, desidera assumersi la responsabilità di crescere ed educare un figlio. E questo è un tema di responsabilità sociale che ogni azienda dovrebbe incoraggiare e custodire, non fosse altro perché il nostro Paese è uno dei più denatali al mondo[9].

Infine, un’ultima considerazione riguarda l’assenza di contradditorio durante il dibattito. Se era difficile prendere la parola e inserirsi nel discorso senza entrare in polemica, non era forse auspicabile esprimere in modo garbato una dichiarazione di dissenso? Il silenzio della Ministra delle Pari Opportunità, seduta al tavolo, ha destato non poche perplessità[10].



[7] «Lavoro: la Great Resignation italiana è rinviata», Presentato il 5° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, 9 marzo 2022.

[8] «Global Gender Gap Report 2021», World Economic Forum, 30 marzo 2021.

[9] «Meno nati, meno attivi?», ISPI, 3 febbraio 2022.

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