Articolo 3
Discriminare sul posto di lavoro va ancora di moda
Secondo l’ultima indagine dell’Istat sulle persone LGBT+ negli ambienti di lavoro, quasi 3 persone su 10 dichiarano che essere omosessuale o bisessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della propria vita lavorativa. Dal report emerge inoltre come i fenomeni di discriminazione siano sottostimati in ambienti di lavoro, dove il tema dell’inclusione è secondario, dove gli atteggiamenti e i comportamenti di aggressione o micro-aggressione non sono socialmente sanzionati, e dove manca una cultura aperta alla diversità.
Recentemente è stato pubblicato dall’Istat il documento che presenta i risultati della ricerca sul tema delle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+[1]. La rilevazione ha coinvolto oltre 21mila persone residenti in Italia che al primo gennaio 2020 risultavano in unione civile o già unite civilmente: nell’indagine, il 65,2% si dichiara un uomo gay, il 28,9% una donna lesbica, il 4,2% una donna bisessuale e l’1,7% un uomo bisessuale. Le persone intervistate hanno un’elevata partecipazione al mercato del lavoro, sono occupate principalmente nel settore terziario, con un contratto da lavoro dipendente e una professione a medio-alta qualifica.
Quasi 3 persone su 10 dichiarano che essere omosessuale o bisessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della propria vita lavorativa (è possibile che il dato sia sottostimato: il campione, infatti, non è rappresentativo della popolazione). L’indagine sottolinea che tale svantaggio emerge più facilmente al crescere del numero di persone occupate nell’azienda e si riduce all’aumentare degli anni di lavoro svolti nello stesso posto di lavoro. Ciò significa che lo svantaggio è più forte tra i giovani, che si sentono discriminati nel loro percorso di crescita.
Un risultato interessante è che il fenomeno viene segnalato maggiormente tra persone che lavorano/lavoravano nel privato e in quei contesti dove è/era presente una figura di diversity manager: questo dato potrebbe apparire un controsenso, ma non lo è. Come si sostiene anche nel documento dell’Istat, in queste aziende c’è, almeno formalmente, una cultura diffusa della diversità e una maggiore consapevolezza sul tema che aiuta i soggetti a riconoscere e rilevare con più facilità le forme di aggressione, micro-aggressione e i comportamenti discriminatori. In ambienti di lavoro dove invece il tema dell’inclusione è secondario, dove gli atteggiamenti e i comportamenti di aggressione, micro-aggressione e discriminatori non sono socialmente sanzionati, e dove non c’è una cultura aperta alla diversità, i soggetti potrebbero essere più portati ad accettare e a considerare normali tali fenomeni, mancando loro le categorie necessarie a una lettura critica del contesto.
È proprio in questi ambienti di lavoro che – in genere – si evita di parlare di sé e si tende a nascondere la propria vita privata, si mette in atto, in altri termini, la famosa «strategia di copertura»: il 40,3% riferisce, per esempio, di aver evitato di parlare della vita privata per tenere nascosto il proprio orientamento sessuale, con un’incidenza più alta tra le donne. Inoltre, una persona su cinque (più gli uomini che le donne) afferma di aver evitato di frequentare colleghi nel tempo libero per non rivelare il proprio orientamento sessuale.
Circa una persona su cinque dichiara di aver vissuto un clima ostile nel proprio ambiente di lavoro, con un’incidenza leggermente più elevata tra le donne, i giovani, gli stranieri e le persone che vivono nel Mezzogiorno. Il 23,1% delle persone omosessuali o bisessuali dichiara di essere stato minacciato in forma verbale o scritta, e una piccola minoranza di aver subito un’aggressione fisica (con incidenze più alte tra gli uomini). Su questo blog abbiamo già parlato degli effetti nefasti (per l’individuo e per l’organizzazione) di ambienti di lavoro aggressivi[2].
Gli ambienti dove il clima è più ostile sono quelli in cui anche le micro-aggressioni fioriscono più facilmente: secondo l’indagine, 6 persone su 10 ne hanno sperimentato almeno una forma (insulti, battute, imitazioni spesso inerenti alla sfera sessuale e spesso a opera di colleghi di pari grado). Quattro su dieci intervistati dichiarano di non aver reagito; gli altri invece lo hanno fatto, anche parlando direttamente con il proprio responsabile. Qualcuno ha pensato di abbandonare il proprio lavoro (quasi uno su dieci). Dall’indagine emerge anche il fenomeno della auto-discriminazione, ossia quando il soggetto si auto-esclude non presentando la domanda di lavoro o non andando al colloquio perché pensa che non verrà preso a causa del proprio orientamento sessuale. Questa percentuale dal 6,3% passa al 12,6% per chi afferma di non essersi presentato perché pensava che l’ambiente di lavoro sarebbe stato ostile. Conta quindi anche l’immagine dell’azienda in relazione ai temi della diversità e inclusione. Ovviamente le politiche di employer branding non bastano e in ogni caso devono essere coerenti con il clima che si respira in azienda: bisogna creare effettivamente un ambiente di lavoro aperto e inclusivo, perché il passaparola tra i soggetti ha un effetto importante sulla reputazione dell’azienda[3].
[1] «Discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+ (in unione civile o già in unione). Anni 2020-2021», Istat, 24 marzo 2022.
[2] «Un luogo di lavoro senza molestie», E&MPlus, 29 luglio 2021.
[3] M. Williams, F. Buttle, S. Biggemann, «Relating Word-of-Mouth to Corporate Reputation», Public Communication Review, 2012, 2(2), pp. 3-16.