Articolo 3

16/03/2022 Simona Cuomo

Il ruolo della moda nei processi di inclusione

La moda inclusiva ha come principale obiettivo quello di creare tipologie di abbigliamento per le persone con disabilità. Nonostante la moda italiana sia considerata un esempio e un motore della moda internazionale, non ci sono attualmente in Italia brand nascenti o di spicco che si occupino di moda inclusiva. Oltre alla mancanza di vero impegno etico e di responsabilità sociale da parte di diverse imprese del settore, i dati suggeriscono che le persone con disabilità sarebbero disposte a spendere più di 8 miliardi di dollari in abbigliamento se solo avessero la possibilità di acquistare capi comodi, belli e soprattutto alla moda. 

 

Per approfondire il ruolo della moda nei processi di inclusione ed esclusione sociale, abbiamo intervistato Miriana Leccia, fashion designer, che ha dedicato a questo tema la sua tesi di dottorato da titolo «Adaptive Fashion: Knitwear for People With Special Needs». Ecco alcuni interessanti spunti emersi dalla nostra chiacchierata.

Con moda inclusiva si intende una tipologia di abbigliamento creato per le persone con disabilità. Per poter essere definito davvero «inclusivo» un capo di abbigliamento deve rispondere a tre caratteristiche:

  • essere accessibile, ossia un capo facile da indossare sia da soli sia con l’aiuto di qualcuno;
  • essere intelligente, poiché pensato per non causare irritazioni e arrossamenti alla persona;
  • essere alla moda, cioè in grado di soddisfare esigenze di gusto e contemporaneità, requisito spesso sottovalutato dai brand che producono abbigliamento per persone con disabilità.

La moda inclusiva si pone quindi l’obiettivo di comprendere i bisogni fisici causati, per esempio, da una ridotta mobilità articolare e di trovare una risposta che soddisfi anche la funzione psicologica e sociale rivestita dall’abbigliamento; attraverso l’abito, infatti, presentiamo noi stessi nelle relazioni, esprimiamo i nostri gusti e le nostre caratteristiche, ma soprattutto raccontiamo agli altri chi siamo; il modo di rappresentarci e raccontarci attraverso l’abbigliamento influenza il nostro benessere emotivo e psicologico, poiché sentirsi bene nei propri abiti significa sentirsi bene con sé stessi e presentarsi agli altri in modo autentico.

Un brand inclusivo, pertanto, non insegue l’idea di un corpo perfetto, ma sottolinea l’unicità di ogni corpo come aspetto di riconoscimento e inclusione. Per questo la moda inclusiva non punta su una produzione di massa standardizzata, ma su una produzione personalizzata e specifica che richiede nuove competenze specialistiche, per esempio il coinvolgimento di esperti di ergonomia nella progettazione.

Le origini della moda inclusiva sono da rintracciarsi negli anni Trenta del XX secolo quando negli Stati Uniti si cerca di adeguare o modificare gli abiti di una collezione in base alle specifiche esigenze della persona con una disabilità. Nelle cliniche per persone con disabilità si era a iniziato a esplorare più a fondo la relazione tra abbigliamento e pratiche riabilitative, guardando al processo di vestizione e svestizione come un momento fondamentale per l’autosufficienza e l’indipendenza del paziente disabile. Negli anni Cinquanta una clinica di New York affida a Mary Brown, designer di abbigliamento, la progettazione e la realizzazione di capi per tutti i pazienti ricoverati. Nasce la prima collezione di moda inclusiva che viene pubblicizzata dai media internazionali contribuendo sia a smuovere la sensibilità collettiva sia a creare un ancoraggio positivo per considerare i bisogni delle persone con disabilità, per la prima volta considerati un target di consumatori.

Nonostante la moda italiana sia considerata un esempio e un motore della moda internazionale, non ci sono attualmente in Italia brand nascenti o di spicco che si occupino di moda inclusiva: «I brand italiani che si occupano di questa tipologia di abbigliamento hanno ancora un approccio medico e medicale alla questione», dichiara Miriana Leccia[1]. Molti sono invece i brand americani che prestano attenzione a unire forma e funzione all’interno delle proprie collezioni: Tommy Hilfiger è stato il primo a realizzare un’intera collezione per uomini e donne con disabilità nel 2016[2].
«L’attenzione alle chiusure, ai dettagli, all’ergonomia del capo, sono solo alcuni degli elementi
che hanno fatto di questa linea un successo per il brand. All’interno delle collezioni è sempre
riconoscibile il gusto del brand, i colori sono quelli rappresentativi del marchio e le forme
soddisfano le varie esigenze e richieste delle persone disabili».  

Oltre alla mancanza di vero impegno etico e di responsabilità sociale da parte di diverse imprese del settore, i dati suggeriscono che le persone con disabilità sarebbero disposte a spendere più di 8 miliardi di dollari in abbigliamento[3] se solo avessero la possibilità di acquistare capi comodi, belli e soprattutto alla moda. Tuttavia, il messaggio veicolato nella pubblicità è ancora contradditorio: «Vengono utilizzati modelli disabili per attirare l’attenzione ma poi indossano abiti per normodotati che non soddisfano le esigenze dei loro corpi». Siamo ancora lontani dalla moda inclusiva.

 

Bibliografia di riferimento:
Chase, R. and Quinn, M. (2003), Design Without Limits. Designing and Sewing for Special Needs. Fairchild publications, Inc. New York.
Dearborn, G. (1918), The Psychology of Fashion, Princeton, Lancaster.
Mair, C. (2018), The Psychology of Fashion, Routledge, Abingdon, Oxon.



[1] Analisi e comparazione dei brand italiani rispetto a quelli stranieri, in «Adaptive Fashion: Knitwear for People With Special Needs».

[2] «Inclusività nella moda: a che punto siamo?», la Repubblica, 16 dicembre 2020.

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