Articolo 3

22/02/2022 Simona Cuomo

Unici o diversi?

Durante la terza serata del Festival di Sanremo Drusilla Foer ha proposto di sostituire la parola «diversità» con «unicità», termine che a detta di molti gioverebbe di più alla causa del Diversity Management, cioè della gestione delle diversità dei lavoratori dentro le organizzazioni.

Tuttavia, prima di sostituire un termine con un altro è importante riflettere sul ruolo che la diversità e l’unicità hanno nella costruzione dell’identità personale.

Il discorso sull’unicità di Drusilla Foer, tenuto sul palco dell’Ariston durante la terza serata del Festival di Sanremo, ha fatto emozionare il pubblico[1]: «Diversità non mi piace perché ha in sé qualcosa di comparativo e una distanza che proprio non mi convince. Quando la verbalizzo sento sempre di tradire qualcosa che penso o sento […] Un termine in sostituzione potrebbe essere unicità, perché tutti noi siamo capaci di coglierla nell’altro e pensiamo di esserlo».

Sulla scia del discorso di Drusilla, si è sottolineato da più parti, soprattutto sui social media, come la parola «diversità» non abbia giovato alla causa del Diversity Management, cioè della gestione delle diversità dei lavoratori dentro le organizzazioni: pertanto, sarebbe meglio parlare di «talento» e di «merito».

Sia diversità sia unicità si riferiscono all’identità delle persone. Vogliamo quindi riflettere sul ruolo che la diversità e l’unicità hanno nella costruzione dell’identità, prima di sostituire un termine con un altro. L’identità definisce chi siamo rispetto a chi non siamo e questa consapevolezza non si costruisce nel vuoto sociale[2]; lo sviluppo dell’identità è interdipendente alla nostra esperienza sociale. Non potremmo essere chi siamo senza aver vissuto in una certa cultura, aver avuto certi legami, aver convissuto con certi modelli educativi ecc. Siamo unici perché siamo noi stessi, ossia perché nella nostra vita facciamo un percorso personale e approdiamo alle nostre credenze dopo aver passato esperienze che non saranno mai uguali a quelle di qualcun altro; ma è solo nel confronto con l’altro – che è altro da noi e quindi diverso – che noi troviamo conferme o meno su chi siamo. Senza quindi questa attitudine relazionale che ci rende sociali, non potremmo essere unici e sapere chi siamo.

La tesi centrale di ogni concezione costruttivista dello sviluppo sociale riguarda il fatto che lo sviluppo dell’identità individuale avviene nell’ambiente e con l’ambiente. È soprattutto nell’interazione con gli altri l’individuo si arricchisce di nuove e differenti modalità per interagire nel contesto in cui vive. Anche la psicologia dello sviluppo ha ormai mostrato come l’individuo, sin dai primi giorni di vita, padroneggia i repertori comportamentali che gli permettono di partecipare alla vita sociale. Nel corso delle interazioni, anche quelle più precoci, l’individuo impara a differenziarsi e a conoscere chi è. Erik Erikson[3] concettualizza l’identità in modo interdisciplinare: la dotazione biologica, l’esperienza personale, l’ambiente sociale e culturale contribuiscono insieme a dare forma e continuità all’esistenza unica di ciascuno di noi. Se, a discapito delle teorie e degli studi, sminuissimo il termine diversità sviliremmo quindi l’esperienza sociale che è invece decisiva per ciascun individuo. È nell’esperienza sociale che si costruiscono i processi di categorizzazione che ci guidano ad avere una rappresentazione della società; questi processi di semplificazione sono necessari perché il sociale è complesso e l’attività cognitiva dell’individuo ha bisogno di un certo grado di semplificazione per poter interagire con l’ambiente. Il Diversity Management è un approccio che ci aiuta a leggere le categorie negli ambienti di lavoro, analizzando come una specifica identità possa essere assurta a norma (e quindi diventare il punto di riferimento), e come l’altra, per differenza, possa essere considerata deviante e quindi portarsi dietro uno stigma che la svantaggia in un particolare ambiente. Ecco che le categorie possono essere interpretate in modo stereotipico ed essenzialista dando origine ad ambienti ostili e stigmatizzanti in cui l’appartenenza alle categorie diviene il criterio di scelta che può generare comportamenti discriminatori. Ed è in questi contesti che la parola diversità assume attribuzioni e connotati negativi e penalizzanti verso chi è considerato diverso dalla norma per vari aspetti della sua identità sociale. Quindi più che modificare il termine dobbiamo imparare a usarlo con cura.



[2] C. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Milano, Feltrinelli, 1993; A. Oliverio Ferraris, La costruzione dell’identità, Milano, Bollati Boringhieri, 2022.

[3] E. Erikson, Infanzia e società, Roma, Armando Editore, 2008 (1950).

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