Articolo 3

02/02/2022 Stefano Basaglia

Non una, ma quale «donna al Quirinale»

Eleggere una donna a una carica pubblica o privata non è un segnale di progresso di per sé. Quello che contano sono le idee, le esperienze politiche fatte e il cursus honorum. La mancata elezione di una donna alla Presidenza della Repubblica pone tuttavia al centro del dibattito il tema dell’accesso delle donne alle posizioni apicali della politica e dell’economia. Tema che non può essere affrontato con la sola introduzione di quote o con appelli generici.

Sabato 29 gennaio 2022, il Presidente Sergio Mattarella è stato riconfermato, per un secondo mandato, alla presidenza della Repubblica italiana. L’elezione è stata caratterizzata dal tema del genere e dalla questione di «una donna al Quirinale».

Alcune intellettuali e artiste hanno firmato un appello in proposito[1] e molti esponenti politici hanno espresso la speranza che potesse essere una donna la nuova inquilina del Palazzo del Quirinale[2].

Il tema del genere era già assurto agli onori della cronaca durante l’elezione del 1999 che portò Carlo Azeglio Ciampi a diventare il decimo Presidente della Repubblica. In quell’elezione nacque un comitato e partì una campagna a favore dell’elezione di Emma Bonino partendo dall’apprezzamento nei suoi confronti da parte dei cittadini italiani rilevato da alcuni istituti di ricerca[3].

Questi due casi mettono in evidenza alcuni problemi legati a come il tema del genere entri nel dibattito sull’accesso alle posizioni apicali della politica e dell’economia. La campagna a favore di Emma Bonino chiedeva l’elezione di una donna indicando un nome, un cognome e uno specifico cursus honorum. Aveva però il vulnus di forzare un sistema che non prevede il meccanismo della candidatura e che lascia ai grandi elettori e, in maniera indiretta, ai loro gruppi parlamentari e/o partiti di riferimento, la decisione di chi debba essere il Presidente della Repubblica. Si trattava di un unicum nella storia della Repubblica: per nessun Presidente uomo era stato creato un comitato ed era stata organizzata una campagna elettorale. Ergersi a baluardo della Costituzione, forzando la Costituzione appare un paradosso.

L’appello del 2022 si limitava a sollecitare l’elezione di «una donna». In particolare, nell’appello si poteva leggere: «Le donne hanno ottenuto stima, fiducia, ammirazione in tanti incarichi pubblici ricevuti, e ci rifiutiamo di pensare che queste donne non abbiano il carisma, le competenze, le capacità e l'autorevolezza per esprimere la più alta forma di rappresentanza e di riconoscimento»[4]. Nell’appello non c’è nessun riferimento a una persona reale e si prescindeva dalle idee, dall’appartenenza politica e dall’esperienza dell’ipotetica candidata: oggi non dovrebbe contare solo la «stima», prendendo a prestito una delle caratteristiche citate dall’appello, ma anche come questa sia stata raggiunta nel corso della carriera della candidata.

Ci siamo già occupati di questo tema a proposito dell’elezione di Marta Cartabia alla presidenza della Corte Costituzionale[5]. Ribadiamo qui il concetto espresso allora: eleggere una donna a una carica pubblica o privata non è un segnale di progresso di per sé. Contano le idee. Sono le idee che sono progressiste o conservatrici e scriviamo questo dal punto di vista dei diritti di cui si occupa questa rubrica che si chiama, per l’appunto, «Articolo 3». I nomi che sono stati pubblicati dai media durante la settimana dell’elezione o erano segnaletici di orientamenti politici conservatori (spesso contrari, per esempio, ai diritti della comunità LGBTQI+) o non dicevano nulla sul fronte delle idee e/o delle appartenenze. Per il bene delle donne e delle minoranze in genere è, quindi, fondamentale valutare le idee delle candidate e, ovviamente, dei candidati. La nomina di Margaret Thatcher a primo ministro del Regno Unito nel 1979 non fu un bene per la causa delle donne, della comunità LGBTQI+ e delle classi subalterne del Regno Unito. Quindi non si facciano più appelli per «una donna» a prescindere, ma si lavori affinché si creino le condizioni perché un buon numero di persone, indipendentemente dal genere, dall’orientamento sessuale ecc. possa assurgere alla carica di Presidente della Repubblica. La persona è più importante dell’identità sociale che si porta appresso.

Ma perché le donne fanno fatica a entrare nella lista dei «quirinabili»? Fanno fatica perché sono ancora relativamente poche. Nell’attuale legislatura sono il 35,11 per cento dei senatori e il 36,06 per cento dei deputati (usiamo, per semplicità, il maschile inclusivo) e, quindi, il bacino da cui pescare è ancora piccolo. Inoltre, per costruire una carriera che consenta di costruirsi un profilo coerente per il ruolo di Presidente della Repubblica ci vuole tempo e anche lungimiranza. Alcune candidate fecero dichiarazioni e parteciparono a manifestazioni improprie nel passato e, questo, ha inciso sul loro profilo attuale. Altre, hanno un cursus honorum sui generis per la Presidenza della Repubblica.

È curioso che nei giorni scorsi si siano citate come candidate ideali due donne del passato che non divennero Presidenti perché i tempi non erano ancora quelli giusti. Si tratta di Tina Anselmi e di Nilde Iotti. Tina Anselmi fece la Resistenza, divenne la prima Ministra del lavoro nel 1976, fu la promotrice della legge sulla parità tra uomini e donne del 1977, fu Presidente, dal 1981 al 1984, della Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2. Nilde Iotti fu membro della Costituente, si occupò di questione femminile e della legge sul divorzio, e fu la prima donna Presidente dalla Camera e rimase Presidente dal 1979 al 1992. Questi sono cursus honorum di alto profilo che aprono le porte del palazzo del Quirinale. L’essere donna di Tina Anselmi e di Nilde Iotti è un di più di un profilo di esperienze politiche di primo livello. La loro elezione avrebbe rappresentato un segno di reale progresso. La loro carriera, inoltre, avvenne senza target e senza quote e in un contesto sociale complesso per le donne.

In questa discussione, vorremmo mettere in evidenza come l’introduzione di quote e/o di target nelle istituzioni pubbliche e/o nelle organizzazioni private può migliorare, da un punto di vista quantitativo e nel breve termine, i dati sulla presenza femminile e, quindi, far contente le statistiche, ma rischia di minare la loro affermazione, nel lungo termine e per le cariche apicali, nella quali è necessario un bouquet di competenze eterogenee (tecniche, manageriali e politiche) che si costruisce nel tempo[6]. Pertanto, se si vorrà eleggere una donna alla Presidenza della Repubblica nel 2029, bisogna pensarci già adesso a livello collettivo e a livello individuale.

 

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