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Neurodiversità fa rima con flessibilità: il caso IBM
Le persone con disabilità sono ancora vittime di alcuni stereotipi che ostacolano la loro piena integrazione nel mercato del lavoro. Spesso quando si valuta una persona con disabilità si pone l’attenzione su quello che non è in grado di fare, piuttosto che su quello che sa o potrebbe fare. Il caso IBM a proposito della neurodiversità mostra come sia possibile costruire progetti in grado di includere tutti i lavoratori. Ne abbiamo parlato con Consuelo Battistelli, Diversity Engagement Partner per IBM Italia.
Il 3 dicembre è la Giornata internazionale delle persone con disabilità. Per l’occasione abbiamo deciso di occuparci di neurodiversità. Il termine è stato usato per la prima volta in un articolo pubblicato nel 1998 sul The Atlantic[1], nel quale si trattava della presenza di un alto tasso di lavoratori autistici presso la Silicon Valley. Il termine è stato ripreso nel 1999 dalla sociologa Judy Singer in un capitolo di un suo libro dal titolo «Why can’t you be normal for once in your life? From a “problem with no name” to the emergence of a new category of difference»[2]. Secondo la Singer, con questo nuovo termine si sarebbe data dignità a tutte le persone che vengono generalmente categorizzate come autistiche.
La «politica della neurodiversità»[3] è basata sull’idea che i soggetti «neurodiversi» siano un gruppo marginalizzato dalla società, e che per questa ragione possano organizzarsi politicamente, come è successo per altri gruppi. Il modello da cui prende le distanze il movimento della neurodiversità è quello medico che vede l’autismo come una forma di disordine mentale, e quindi la persona che ne è affetta come anormale o deficitaria. Il movimento della neurodiversità ribalta questa visione normalizzatrice proponendone una nuova che promuove l’autismo come una normale variazione del cervello, come una delle tante forme della condizione umana: l’autistic advocacy è l’affermazione di una nuova identità basata su questa differenza[4]. Alcuni autori[5] hanno sottolineato il rischio dello sfruttamento di queste capacità al fine di impiegarle nello svolgimento di specifiche mansioni rendendo l’individuo il più produttivo possibile.
Ne abbiamo parlato con Consuelo Battistelli, Diversity Engagement Partner per IBM Italia.
Zenia Simonella: Il 3 dicembre è la Giornata internazionale delle persone con disabilità. Dal tuo osservatorio, qual è la situazione delle persone con disabilità nel mercato del lavoro in Italia?
Consuelo Battistelli: Il tasso di disoccupazione delle persone con disabilità è ancora molto più alto di quello delle persone senza disabilità. Circa più del doppio. Non è un dato incoraggiante. Peraltro, stiamo parlando di una buona fetta di persone: poche lavorano, malgrado molte di loro potrebbero farlo. Laddove sono occupate, svolgono una mansione che spesso non è in linea con il loro profilo, perché ci sono ancora alcuni stereotipi. Questo perché si pone l’attenzione su quello che queste persone non possono fare; mai su quello che sanno o potrebbero fare. Finché rimaniamo ancorati ad alcuni stereotipi (che sono, in fin dei conti, barriere culturali) cambierà poco. Il cieco può solo rispondere al telefono. Non può fare altro. Alla persona non si chiede cosa possa fare per attitudine e per competenze accumulate; si decide senza ascoltarla, applicando schemi precostituiti. Questo non è un vantaggio per nessuno, né per la persona, né per l’azienda. L’azienda adempie all’obbligo. Siamo ancora lì. Certo, meno male che c’è la legge 68/99, se no chissà in che situazione saremmo. Ma bisogna andare oltre.
Z.S.: Che cos’è la neurodiversità?
C.B.: Non è un disordine, è uno stato, un modo di pensare. Chi lo definisce come disordine o malattia è perché la vede come qualcosa che si allontana dalla norma, dallo standard. Divertĕre in latino significa «volgere», prendere un’altra strada; dalla stessa radice proviene il termine «divertirsi», «divertimento». Ma noi non siamo propensi al divertimento, alla creatività. Ci piace di più la strada conosciuta, ci dà sicurezza, è più controllabile, ci fa meno paura. Ma neurodiversità può essere sinonimo di talento. Certo, se vuoi vedere il neurodiverso come un talento. Se lo si considera un talento, questo è positivo per tutti, non solo dal punto di vista etico, ma anche economico.
ZS: IBM è stata una delle prime aziende che ha promosso il tema della diversità e inclusione. Da diverso tempo si sta occupando di neurodiversità: quali progetti ha adottato?
C.B.: Di diversità e inclusione IBM effettivamente si occupa fin dalla sua nascita. Lo dimostra il fatto che ha spesso precorso la legislazione in materia di uguaglianza. Per esempio, già nel 1914 l’azienda assunse il primo dipendente con disabilità 76 anni prima della legge americana sulla disabilità; o nel 1935 quando entrò in IBM la prima donna professional, 28 anni prima dell’Equal Opportunities Act. Relativamente al tema della neurodiversità, abbiamo cominciato a parlarne fattivamente in IBM Italia quest’anno. A livello globale, già dal 2015. Inizialmente si è costituito il business resources group (BRG) sulla neurodiversità grazie all’impegno di due colleghi, uno australiano e uno americano. Nel 2020 il BRG è diventato un programma a livello globale Programma ufficiale ND@IBM, il cui motto è «Niente per noi senza di noi». È gestito in collaborazione con i colleghi neurodivergenti di IBM. Una caratteristica di questo progetto è offrire safe spaces, ossia luoghi virtuali di incontro solo per persone con una neurodiversità, alle quali è garantita la privacy: si tratta di spazi di confronto dove si è creato uno spirito di comunità.
Oltre al BRG, la nostra azienda ha svolto attività di sensibilizzazione in più di 30 Paesi su altre neurodiversità. Anche in Italia abbiamo proposto un’attività culturale prima con i manager e poi con tutti gli altri dipendenti attraverso l’aiuto di Specialisterne[6], un’azienda impegnata nel sociale che si occupa di persone con autismo e sindrome di Asperger. IBM ha posto parecchia attenzione anche al tema della selezione di professionisti neurodiversi con alto livello di preparazione (per esempio i data scientist), e questo è avvenuto in 8 Paesi, ma purtroppo non ancora in Italia.
Z.S.: Alcuni vedono nella cosiddetta «autistic advocacy» il rischio di ghettizzazione o di sfruttamento di un insieme di individui con specifiche abilità rispetto allo svolgimento di alcune mansioni. Che cosa ne pensi?
C.B: È ancora un luogo comune: i ciechi rispondono al telefono. Non si punta sulle differenze. Qual è il rischio quando parliamo di disabilità? L’omologazione. Sono tutti uguali, usano tutti gli stessi strumenti: non è vero. È facile dare lo stesso compito, è un problema in meno per chi deve pensare all’inclusione. L’inclusione va costruita. Per me, bisogna costruire un progetto in cui c’è sinergia; altrimenti l’inclusione non funziona, soprattutto se l’organizzazione è rigida e ha processi standardizzati. Disabilità e standardizzazione fanno a pugni. Bisognerebbe sempre partire dalla persona, che, come dicevo, viene sempre ascoltata per ultima; o non viene ascoltata.
[1] H. Blume, «Neurodiversity. On the neurological underpinnings of geekdom», The Atlantic, settembre 2018.
[2] J. Singer, «Why can’t you be normal for once in your life?’ From a “problem with no name” to the emergence of a new category of difference», M. Corker, S. French (a cura di), Disability Discourse, Buckingham/Philadelphia: Open University Press, 1999.
[3] K. Runswick-Cole, «“Us” and “them”: the limits and possibilities of a “politics of neurodiversity” in neoliberal times», Disability & Society, 29(7), 2014, pp. 1117-1129.
[4] L. Dobusch, «The inclusivity of inclusion approaches: A relational perspective on inclusion and exclusion in organizations», Gender, Work and Organisation, 28(1), 2019, p. 382.
[5] Runswick-Cole, op. cit. p. 1124.