Articolo 3

16/11/2021 Stefano Basaglia

Il silenzio delle imprese sui temi LGBTQ+

Le principali associazioni delle imprese non hanno detto e fatto assolutamente nulla né prima, né durante, né dopo la discussione della legge Zan. Per queste associazioni i temi LGBTQ+ non esistono. A livello di singole imprese, dobbiamo distinguere tra un piccolo gruppo di imprese «illuminate» e una grande maggioranza di imprese refrattarie a occuparsi della diversità e dei temi LGBTQ+. Lo scarso interesse da parte delle imprese italiane e da parte dei loro vertici verso i temi della diversità e dell’inclusione LGBTQ+ è tanto più rumoroso se paragonata a quanto accade, invece, negli Stati Uniti, dove l’attivismo, anche su temi sociali e politici «controversi», degli amministratori delegati, è sempre più diffuso.

 

Nel giugno del 2020, concludevamo il tradizionale post dedicato al mese dell’orgoglio LGBTQ+ con queste parole relative alle vicissitudini della «legge Zan»: «Che, dopo 23 anni, sia la volta buona?»[1].

Come sappiamo neanche questa volta è stata la volta buona. Il Senato della Repubblica ha deciso con votazione segreta «di non passare all’esame degli articoli del ddl 2005, misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità, già approvato dalla Camera dei deputati (c.d. dl Zan)»[2].

L’Italia, quindi, rimane senza una legge che prevenga e contrasti le discriminazioni e le violenze per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità.

In questi ultimi due anni ci siamo occupati della legge e del ruolo che le imprese hanno e potrebbero giocare in questo campo. Se un’impresa vuole sussumere all’interno della propria cultura organizzativa e delle proprie politiche e pratiche di gestione delle risorse umane i valori della diversità e dell’inclusione dovrebbe essere contenta che il Paese in cui si trova a operare adotti una legge che le faciliti il compito.

Che cosa hanno fatto, quindi, le imprese italiane con riferimento a questa legge e, più in generale, rispetto ai temi LGBTQ+? Proviamo a rispondere distinguendo tra il livello associativo e quello che riguarda le singole imprese.

Come abbiamo rilevato più volte[3], le principali associazioni delle imprese non hanno detto e fatto assolutamente nulla né prima, né durante, né dopo la discussione della legge. Per queste associazioni i temi LGBTQ+ non esistono.

A livello di singole imprese, dobbiamo distinguere tra un piccolo gruppo di imprese «illuminate» e una grande maggioranza di imprese refrattarie a occuparsi della diversità e dei temi LGBTQ+. Tra le imprese «illuminate», però, prevale una visione strumentale legata, di fatto, alle politiche di comunicazione rivolte ai potenziali lavoratori (employer branding) o clienti.

In queste imprese spesso esistono reti interne in cui sono affrontati i temi LGBTQ+ e, nella scorsa primavera, hanno discusso, in modo informale, della legge. Non ci sono state, però, prese di posizioni ufficiali e formali da parte di queste imprese e da parte dei loro vertici. Non sono stati organizzati neppure momenti pubblici in cui valutare le vicissitudini della legge. Per esempio, nel calendario di eventi «4 weeks 4 inclusion», un’iniziativa che ha messo in rete ben 200 imprese[4], non c’è traccia nei titoli e/o nelle descrizioni degli eventi relativi al dl Zan: è possibile che anche in questi eventi se ne discuta in maniera informale. Manca, però, l’ufficialità. Questo non è un dettaglio. Nei social media, inoltre, non si sono visti i loghi con i colori dell’arcobaleno come li abbiamo visti nel mese dell’orgoglio LGBTQ+ e neppure post esplicitamente a supporto della legge o contro il suo stop. Questo understatement, per usare un eufemismo, può essere letto come un segnale di scarso interesse reale da parte delle imprese italiane e da parte dei loro vertici verso i temi della diversità e dell’inclusione LGBTQ+.

In particolare, la voce del silenzio degli amministratori delegati delle imprese italiane è tanto più rumorosa se paragonata a quanto accade, invece, negli Stati Uniti, dove l’attivismo, anche su temi sociali e politici «controversi», degli amministratori delegati, è sempre più diffuso[5]. Questo attivismo ha degli effetti sull’impresa (sulla sua identità, cultura e immagine), sui portatori di interessi interni (i lavoratori) ed esterni (investitori) e sui clienti. In particolare, le prese di posizione incidono sul grado di identificazione di tutti gli attori nei confronti dell’impresa vista alla luce dell’attivismo degli amministratori delegati. In alcune situazioni e in alcuni contesti non prendere una posizione pubblica significa privilegiare determinati interessi a scapito di altri. Gli interessi dei lavoratori e dei cittadini LGBTQ+ non sono di certo stati privilegiati dalle imprese italiane.

Alcuni potrebbero dire che non è compito delle imprese e dei loro amministratori delegati occuparsi di politica e della società[6]. Se questo è vero, però, dovrebbe valere in tutti i campi. Le imprese, in particolare, dovrebbero evitare di propagandare politiche e pratiche di facciata durante il mese dell’orgoglio LGBTQ+. È comodo esporsi nei contesti in cui si sa di trovare consenso e/o rispetto ai temi che sono stati ampiamente legittimati dalla società. Per esempio, nel comunicato stampa del G20 dei giovani imprenditori c’è la richiesta di garantire pari opportunità: «Eliminando la disparità di genere e le differenze tra zone urbane e rurali, a favore di una maggiore partecipazione di giovani e donne in ruoli di leadership»[7].

Il tema delle pari opportunità di genere è ormai un tema ampiamente legittimato, perlomeno nel discorso pubblico: chiedere le pari opportunità tra uomini e donne non è una cosa così nuova come ha ricordato recentemente Simona Cuomo in questo blog[8]. Tra l’altro, il dl Zan, avrebbe aiutato anche su questo fronte perché la legge non riguardava solo l’orientamento sessuale e l’identità di genere, ma anche il sesso, il genere e la disabilità. Poi sappiamo che anche della questione di genere si è parlato molto, ma si è fatto poco[9].

Anche tra i movimenti sociali si è osservata una reazione visibile solo da parte del movimento LGBTQ+. Qual è la posizione delle altre categorie protette e tutelate dal dl Zan? Che cos'ha da dire il movimento femminista nelle sue varie declinazioni? Che cosa pensano le associazioni delle persone con disabilità?

La situazione è diversa, invece, come abbiamo già visto, relativamente ai sindacati dei lavoratori, tra i quali la CGIL che si è sempre espressa pubblicamente nel sostegno del dl Zan: «L’azione antidiscriminatoria nei posti di lavoro, già colpita dalle riforme degli ultimi anni dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, continuerà a risentire della mancanza di una legge di deciso contrasto alle discriminazioni»[10].

Riguardo al dl Zan, il mondo politico non ha dato una buona prova, sia perché ha bloccato l’approvazione della legge, sia perché alcuni senatori e partiti politici hanno esultato scompostamente per l’esito della votazione. Dobbiamo anche dire, però, che anche il mondo delle imprese non è stato all’altezza del suo ruolo. Come abbiamo scritto più sopra, è semplice lavorare in contesti senza conflitto, quando sono tutti d’accordo, raccontare a ogni piè sospinto quanto sia bella e conveniente la diversità e poi, di fronte alle decisioni importanti, alle prese di posizione che accontentano alcuni e scontentano altri, fare finta di niente.

Vorremmo concludere questo post citando il coming-out dell’Onorevole Vincenzo Spadafora, deputato del Movimento Cinque Stelle: «Chi ha un ruolo pubblico, politico come il mio ha qualche responsabilità in più. Ho deciso di dire ora di essere omosessuale per me stesso, perché ho imparato forse molto tardi che è molto importante volersi bene e soprattutto rispettarsi. […] In politica questo tema viene ancora utilizzato per ferire l’avversario politico, per quel brusio di fondo che a volte è molto squallido e l’ho subito anche io. Io resto l’uomo che sono con tutto il percorso anche personale, complicato, che ognuno di noi fa nella propria vita»[11].

In questa fase, i coming-out da parte di chi occupa posizioni di rilievo nella politica, nell’economia e nella società sono importanti. Anche su questo fronte le imprese italiane latitano. O non ci sono amministratori delegati LGBTQ+ o sono nascosti. In entrambi i casi non è un bel segnale.

L’Italia, quindi, non riesce, sul fronte dei diritti, a fare il balzo verso i Paesi avanzati perché non ha ancora una classe dirigente all’altezza di questa sfida e imprese convintamente interessate a lavorare, politicamente e praticamente, sul fronte della diversità e dell’inclusione. Lavorare su un cambiamento della cultura non basta: le leggi sono importanti per sostenere la legittimazione in modo tale che vi sia una triangolazione tra il livello culturale, quello etico e quello legislativo. Che l’anno prossimo ci siano risparmiati parole alate e dichiarazioni lapalissiane. Per la comunità LGBTQ+ la primavera, per citare un noto cantautore italiano che non ha mai fatto coming-out, tarda ad arrivare.



[2] 371ª Seduta pubblica, Senato della Repubblica, 27 ottobre 2021.

[4] «La grande maratona dedicata alla diversità e all’inclusione», https://4w4i.it.

[5] D.C. Hambrick, A.J. Wowak, «CEO Sociopolitical Activism: A stakeholder Alignment Model», Academy of Management Review, 46(1), 2021, pp. 33-59.

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