Articolo 3

20/09/2021 Simona Cuomo

Il rientro al lavoro post-emergenza: possiamo parlare di smart working?

L’esperienza e il modello di Wind Tre

Nella sua originaria accezione, lo smart working avrebbe dovuto rappresentare un vero e proprio cambiamento culturale: conciliare i bisogni dei lavoratori, fondando un nuovo modello di leadership basato sulla fiducia e l’inclusione anziché sul controllo e la discriminazione, senza ridursi a quello che oggi sembra il ragionamento prevalente, ovvero la definizione delle percentuali di rientro in presenza dei lavoratori.

Più di altre aziende, Wind Tre sembra aver colto la portata rivoluzionaria dello smart working, costruendo un progetto di rientro in azienda a partire dai bisogni dei lavoratori.

 

L’emergenza Covid-19 ha accelerato la transizione verso un’organizzazione del lavoro basata sulle tecnologie digitali che, a sua volta, ha permesso a milioni di lavoratori di operare da remoto. Questa esperienza massiva viene spesso genericamente classificata come smart working e/o lavoro agile[1], generando confusione e distorsioni su queste concezioni di lavoro e su come potranno essere costruite le modalità di rientro una volta terminata la fase emergenziale (prorogata di recente fino al 31 dicembre 2021).

A tal proposito, il dibattito si sta ancorando sulle percentuali dei lavoratori che torneranno in presenza al fine di identificare, in relazione al tipo di attività svolta, una corretta ripartizione di che cosa si potrà fare a casa e che cosa in presenza. Il livello percentuale che i policy maker[2] e le imprese[3] dichiarano a livello pubblico segnala una riflessione e una progettazione organizzativa che si fonda sulle esperienze di remote working implementato durante la pandemia, al fine di trovare soluzioni tecniche e volumi di lavoro da remoto accettabili sia per le persone sia per le imprese.

Queste esperienze, se da un lato hanno prodotto benefici per le imprese che hanno risparmiato sui costi fissi (dagli affitti ai buoni mensa, dalle spese energetiche a quelle di viaggi e trasferte ecc.), dall’altro hanno spesso estremizzato i costi per le persone: over-working, zoom fatigue, stress e affaticamento da lavoro, sentimenti di alienazione e di dispersione del senso di appartenenza poiché le comunità professionali sono diventate «virtuali». Non da ultimo, si è verificata una vera e propria asimmetria sociale: il lavoro da remoto è stato infatti edificato in un modo che di fatto ha inasprito le disuguaglianze esistenti. Per esempio, la probabilità di lavorare da casa è stata più elevata per i giovani lavoratori e molto più bassa per le minoranze e i «colletti blu» senza un grado di istruzione elevato e ha penalizzato, in assenza di un welfare a supporto, le donne[4].

Lo smart working o lavoro agile, così come era stato previsto dal legislatore[5], avrebbe invece dovuto essere una risposta ai bisogni di conciliazione dei lavoratori, e fondare un nuovo modello di leadership basato sulla fiducia e l’inclusione anziché sul controllo e la discriminazione, sulla responsabilizzazione individuale anziché sul comando. Il presupposto dello smart working nella sua originaria accezione avrebbe dovuto rappresentare un vero e proprio cambiamento culturale, senza ridursi a quello che oggi sembra il ragionamento prevalente, ovvero la definizione delle percentuali di rientro in presenza dei lavoratori.

La progettazione di Wind Tre[6], più di altre, sembra cogliere lo spirito e la portata innovativa, non solo tecnologica ma culturale del lavoro agile. La decisione è stata quella di costruire un progetto di rientro a partire dai bisogni dei lavoratori. Innanzitutto, è stata realizzata una survey per capire il percepito delle persone sulla modalità di lavoro adottata in emergenza[7], su quali fossero le criticità e su quali supporti avrebbe potuto dare l’azienda. I risultati della survey hanno messo in luce come le persone desiderassero estendere il lavoro da remoto anche oltre la fase pandemica, senza vincoli o percentuali fissate ex ante dall’impresa.

Alla luce di questi risultati, il management è stato accompagnato a riflettere sui bisogni delle persone e a progettare coerentemente le linee guida del nuovo modello di smart working . Il progetto si fonda quindi non sul concetto del «quanto» è necessario andare in azienda focalizzandosi sulle percentuali di rientro, ma sul «perché» è necessario trovarsi fisicamente in azienda e per quali tipologia di attività[8]. All’interno di questa cornice di senso non ci sono quindi vincoli di numero di giornate da fare in presenza ma autonomia dei team nel deciderle con il proprio manager. Il progetto è stato oggetto di un accordo sindacale ed è stato successivamente integrato con l’adozione di nuovi strumenti tecnologici a supporto del lavoro da remoto, con attività di formazione rivolte a tutti i lavoratori e con attività di monitoraggio continuo finalizzate a migliorare il modello in base alle esperienze dei lavoratori e man mano che viene usato. Inoltre è stata diffusa la «We-etiquette», una carta di buoni comportamenti ideata da parte di giovani Millennials, come punto di riferimento per poter collaborare a distanza in modo efficace[9].

È inoltre importante sottolineare come il progetto di smart working si inserisca in una cornice di cambiamento culturale più ampia, a partire dalla diffusione del nuovo purpose «Esistiamo per eliminare qualsiasi distanza tra le persone» e dei valori aziendali dell’inclusione, del coraggio, della responsabilità e della fiducia[10] avvenuti insieme al lancio del marchio unico Wind Tre. Appare pertanto evidente che il motore del progetto non sia stata la volontà di fare efficienza immediata lavorando per esempio sulla riorganizzazione degli uffici e sulla riduzioni degli spazi fisici, come ha commentato il il dott. Sergio Gonella, Culture, People Development & Talent Acquisition Director di Wind Tre che abbiamo intervistato.

 

Il blog è stato scritto in collaborazione con Martina Raffaglio, SDA Fellow.

Si ringraziano inoltre il dott. Sergio Gonella, Culture, People Development & Talent Acquisition Director di Wind Tre, per l’intervista rilasciata che è stata rielaborata in questo blog.

 



[1] Su E&MPlus sono stati pubblicati i seguenti contributi sul tema: «La fiducia alla base del lavoro agile», 20 maggio 2020; «Per favore, non chiamiamolo “smart working”», 20 aprile 2020; «Una nuova divisione del lavoro è possibile?», 26 marzo 2020; «Come cambia il lavoro ai tempi del coronavirus», 26 febbraio 2020; «Smart-working-remote-working-e-south-working», 7 aprile 2021

[5] Legge del 22 maggio 2017, n. 81

[6] Il modello di smart working è stato collocato nel 2021 dal Top Employer Institute come Best Practice e divulgato nella sua community.

[7] La survey #TOBESMART si è focalizzata sull’analisi di cinque aspetti: collaborazione; empowerment sugli obiettivi; teamworking; tool disponibili; spunti per il futuro.

[8] Le attività in presenza sono guidate da uno di questi scopi: Innovate, Connect, Inspire.

[9] I principi della «We-Etiquette» riguardano 4 ambiti: come gestire l’agenda in smart working, come collaborare in maniera corretta, come gestire le riunioni sia in presenza sia a distanza, come fare squadra e coltivare le relazioni.

[10] In base a questi valori sono stati elaborati otto comportamenti di cittadinanza organizzativa, validi quindi per tutti i lavoratori, inseriti nel sistema di performance management.

 

 

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