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«Diversità e inclusione» non sono (ancora) un affare da CdA
Secondo i risultati di una ricerca condotta dall’Osservatorio Diversità, Inclusione e Smart working di SDA Bocconi, a dieci anni dall’introduzione della legge detta «Golfo-Mosca» il tema della «diversità e inclusione» non ha trovato la giusta attenzione nei Consigli di Amministrazione. Di conseguenza, non sembra essersi creata quella cinghia di trasmissione tra CdA e organizzazione che avrebbe potuto promuovere con più forza la parità di genere a tutti i livelli organizzativi.
Con l’introduzione della legge 120/2011, detta «Golfo-Mosca», le società quotate e pubbliche sono state obbligate a introdurre quote di genere a scaglioni. Grazie a questa legge, nei Consigli di amministrazione le donne sono passate da circa il 7% (2011) al 37% (2020) e nei CdA si è osservata una riduzione dell’età media, un aumento del livello d’istruzione, un aumento della diversità in termini di background professionale[1]. La legge «Golfo-Mosca» ha reso dunque più equilibrati i CdA dal punto di vista di genere, raggiungendo l’obiettivo prefissato.
Come sappiamo, però, l’aspetto della parità di genere dal punto di vista numerico è solo la punta dell’iceberg di un tema molto più complesso, ossia le disuguaglianze e la discriminazione nel mercato del lavoro e nelle organizzazioni.
Infatti, malgrado negli ultimi decenni sia stata crescente l’attenzione al tema della diversità e della parità di genere, la posizione dell’Italia nella classifica del Global Gender Gap mette in evidenza la persistente fragilità delle donne rispetto agli uomini, sia in termini di accesso alle risorse sia in relazione alle opportunità nel mercato del lavoro[2]. Inoltre, a livello organizzativo le indagini sull’adozione delle politiche di diversità e inclusione da parte delle imprese mostrano una diffusione ancora limitata a una fetta ristretta di imprese[3], segno che il tema non è ancora decollato nelle organizzazioni a partire dal vertice: il Consiglio di Amministrazione.
È quanto emerge da una ricerca qualitativa condotta dall’Osservatorio Diversità, Inclusione e Smart working di SDA Bocconi, in collaborazione con Valore D e sponsorizzata da Generali e McKinsey, dal titolo «Governance e genere: gli effetti della Legge Golfo-Mosca».
Nell’ambito della ricerca sono stati/e intervistati/e 100 donne consigliere (nella maggior parte dei casi nel ruolo di indipendente), 34 amministratori delegati e/o presidenti e alcuni opinion leader (scelti tra giornalisti e membri di importanti istituzioni) tra giugno 2020 e febbraio 2021.
La maggior parte delle persone intervistate riconosce che la legge Golfo-Mosca ha portato «un soffio di aria fresca» in organi alimentati da network chiusi, scardinando meccanismi consolidati di scelta dei consiglieri. Una minoranza di intervistati/e valuta la legge come una forzatura che ha vincolato l’azione dell’impresa, minando i meccanismi meritocratici e mettendo le imprese nella condizione di dover scegliere «improvvisamente» una donna in una rosa limitata.
Secondo la maggioranza delle persone intervistate, il contributo delle donne è stato importante nell’arricchire l’attività del CdA in termini di: una maggiore richiesta di trasparenza e approfondimento delle informazioni a disposizione; una più forte attenzione alla compliance; una migliore capacità di introdurre nuove prospettive per affrontare i problemi; una maggiore armonizzazione delle dinamiche relazionali. Complessivamente il loro contributo è stato percepito più efficace nelle attività di controllo più che nelle questioni di business, anche perché le donne entrate nei CdA spesso provengono più dalla libera professione o dal mondo accademico che da posizioni manageriali.
Se il contributo ai processi del CdA è stato percepito come centrale, l’impegno sulla «diversità e inclusione» da parte delle consigliere è emerso come sporadico e frammentato. L’aspettativa che le consigliere portassero nei CdA il tema è stata in parte disattesa.
Prima dell’entrata in vigore della legge Golfo-Mosca era noto che la gestione strategica delle persone (people strategy), in cui dovrebbe rientrare anche «diversità e inclusione», non fosse un tema del CdA. Benché non fosse un obiettivo dichiarato, c’era l’aspettativa che l’ingresso delle donne avrebbe potuto orientare il dibattito del CdA sul tema della parità, generando, a tendere, un effetto a cascata su tutta l’organizzazione. Questa aspettativa era legata al fatto che, da un lato, l’ingresso delle donne era stato sostenuto da parte di movimenti e associazioni di categoria; dall’altro, si era diffusa l’idea che una congrua presenza di donne al potere (in linea con l’approccio femminista neoliberal) avrebbe potuto generare un cambio di prospettiva.
La motivazione di questo mancato o ancora blando impegno del CdA sul tema è principalmente legata alla convinzione diffusa che la parità di genere sia un tema gestionale di cui si occupa l’amministratore delegato insieme al direttore del personale. Un altro elemento non trascurabile che ha condizionato il contributo delle donne è stato il modo di interpretare il ruolo di consigliera in virtù della propria storia personale e professionale e del capitale simbolico accumulato nel tempo. Per le donne non è stato sempre facile esprimersi sul tema: ciò è dipeso dal grado di libertà di azione percepito nel CdA; dalla necessità di acquisire credito in un contesto che, soprattutto nei primi mandati, rendeva la presenza delle donne un obbligo da espletare facendole sentire «fuori posto»; infine, dall’autoreferenzialità che l’introduzione del tema della parità di genere da parte delle donne inevitabilmente comporta.
Dalla ricerca apprendiamo comunque che, quando è stato trattato, il tema è stato portato in consiglio quasi sempre come risultato di un lavoro svolto nei comitati endoconsiliari, di un dialogo costante dei consiglieri con il management e usando gli strumenti già a disposizione del CdA.
Nonostante quindi esistano all’interno dell’attività del consiglio diversi luoghi e strumenti per poter stimolare il dibattito, in questi dieci anni di applicazione della legge il tema non è stato dibattuto (o non lo è stato a fondo): di conseguenza, non sembra essersi creata quella cinghia di trasmissione tra CdA e organizzazione che avrebbe potuto promuovere con più forza la parità di genere a tutti i livelli organizzativi. Sarà la pressione degli investitori istituzionali (attraverso gli ESG) a spingere le imprese a occuparsi del tema in un’ottica di sostenibilità.
[1] Per maggiori dettagli sullo stato dei CdA in Italia, compresa la legge Golfo-Mosca cfr. l’ultimo Rapporto Consob sulla Corporate Governance 2020: https://www.consob.it/documents/46180/46181/rcg2020.pdf/023c1d9b-ac8b-49a8-b650-3a4ca2aca53a.
[2] World Economic Forum, Global Gender Gap Report 2020: https://www.weforum.org/reports/gender-gap-2020-report-100-years-pay-equality.
[3] St. Basaglia, C. Paolino, Z. Simonella. «The last call. L’adozione del DM e l’insostenibile ritardo delle imprese italiane», Economia & Management, 2015/2, pp. 42-49. Si veda anche: Istat (2019) Il diversity management per le diversità lgbt+ e le azioni per rendere gli ambienti di lavoro più inclusivi: https://www.istat.it/it/archivio/250150.