Articolo 3

02/07/2021 Stefano Basaglia

Orgogliosi sempre e ovunque: alcune riflessioni post pride LGBTQI+

I diritti LGBTQI+ stanno diventando sempre più una questione politica e geo-politica. Le imprese che in questi ultimi giorni hanno promosso iniziativa a supporto del mese del pride non possono però limitarsi a iniziative di facciata nei Paesi in cui sono presenti, ma devono impegnarsi nell’adottare misure concrete di diversity management. In Italia, nonostante la recente eco mediatica, l’ha fatto solo il 5,1% del totale delle imprese

 

La fine del mese di giugno segna anche la conclusione della serie di iniziative e manifestazioni dedicate all’orgoglio LGBTQI+ organizzate dalle associazioni e dalle imprese. Le imprese, a partire in particolare dal 2016, hanno progressivamente intensificato le politiche e le campagne a favore dei diritti dei cittadini/clienti e dei lavoratori LGBTQI+. Questo fatto è evidente anche in maniera aneddotica: basta accedere, per esempio, a LinkedIn per vedere loghi virati verso la bandiera arcobaleno, annunci di webinar e di sponsorizzazioni a tema inclusion & diversity ecc. Sono stati trasmessi anche spot pubblicitari a tema e molte reti televisive e piattaforme di streaming hanno dedicato spazi a film a tematica LGBTQI+. Anche in alcune città si sono visti manifesti di imprese a supporto del mese del pride. Tutto questo, però, riguarda ancora una minoranza di imprese come i dati dell’indagine Istat del 2019 hanno messo in evidenza: solo il 5,1% del totale delle imprese (4,4% per le imprese con meno di 500 addetti; 14,6% per quelle con 500 e più addetti), ha adottato almeno una misura, ossia una pratica concreta, di diversity management per le diversità di orientamento sessuale e identità di genere[1]. Inoltre, la maggior parte delle imprese italiane assomigliano ai giocatori della nazionale di calcio di fronte al movimento Black Lives Matter: si muovono singolarmente o per piccoli gruppi, imitano senza contestualizzare, senza essere in grado di creare una voce comune attraverso le loro associazioni più rappresentative e/o influenti. Questo fatto è particolarmente vero di fronte alle vicende della cosiddetta Legge Zan di cui abbiamo già parlato in un altro articolo di questo blog[2].

Relativamente all’iter di questa legge, il mese di giugno è stato caratterizzato dalla pubblicazione, da parte del Corriere della Sera, di una nota verbale inviata dalla Segreteria di stato del Vaticano all’ambasciata d’Italia presso la Santa sede in cui si chiede una «diversa modulazione» della legge[3]. Il condizionamento della Chiesa Cattolica, attraverso le sue varie organizzazioni, sulla società e sulla politica italiana non è una novità: lo abbiamo visto anche a proposito dell’approvazione della legge sulle Unioni Civili che, dobbiamo ricordarlo, non sana la discriminazione nei confronti dei cittadini LGBTQI+. Infatti, questa legge definisce l’unione civile tra persone dello stesso sesso «quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione» e non richiama l’articolo 29. Rappresenta, quindi, una forma di segregazione: «Come per i neri mezzo secolo fa [negli Stati Uniti] – obbligati a utilizzare carrozze riservate sui treni e posti particolari nelle assemblee e nei luoghi pubblici – oggi in molti paesi [tra cui l’Italia] le coppie gay e lesbiche si vedono riconosciuti diritti e obblighi identici a quelli delle coppie eterosessuali, ma sono costrette, nondimeno, ad alloggiare su una carrozza diversa, a loro dedicata e con apposito nome»[4]. L’Italia, quindi, non solo non ha ancora una legge contro l’omobistransfobia, ma non ha ancora una legge sul matrimonio egualitario.

I diritti LGBTQI+ non sono terreno di conflitto solo tra i singoli Stati e le Chiese, rappresentano anche fonte di tensioni lungo la faglia – alcuni anni fa si sarebbe detta la cortina di ferro – tra Ovest ed Est. Al Consiglio europeo del 24 e 25 giugno 2021 è stato affrontato il problema della legge ungherese che vieta la rappresentazione dell’omosessualità ai minori e 17 Capi di governo hanno firmato una lettera pubblica in difesa dei diritti della comunità LGBTQI+[5]. Tra i firmatari della lettera c’è stato anche il Presidente del consiglio italiano. Sull’account Twitter della Presidenza del consiglio italiana si poteva leggere[6]: «Per odio intolleranza e discriminazione non c’è posto nella nostra Unione. Ecco perché oggi e ogni giorno stiamo dalla parte del rispetto delle diversità e dell’uguaglianza LGBTI affinché le future generazioni possano crescere in un’Europa basata sull’uguaglianza e il rispetto».

I diritti LGBTQI+, quindi, diventano sempre più una questione politica e geo-politica. Le imprese non possono chiamarsi fuori da questa situazione per vari motivi. In primo luogo, il conflitto tra laicità e religione non riguarda solo lo Stato, ma anche direttamente le imprese: come si deve comportare un’impresa quando emerge un conflitto come quello tra diritti dei lavoratori e dei clienti LGBTQI+ e le posizioni dei lavoratori religiosi (cristiani, mussulmani e/o di altra religione) che hanno un rapporto conflittuale con l’orientamento sessuale e l’identità di genere? A livello più generale, le imprese che si definiscono «LGBTQI+ friendly» non possono pensare di limitarsi a iniziative di facciata nei differenti Paesi in cui sono presenti. Per esempio, tornando all’Italia, speriamo che la legge contro l’omobistransfobia non segua la sorte di quella sulle Unioni Civili e, quindi, non venga depotenziata. Se questo dovesse accadere, però, tutte quelle imprese che hanno fatto virare il proprio logo verso i colori dell’arcobaleno dovrebbero far sentire la loro voce e il loro peso, altrimenti la comunicazione è solo retorica e i webinar solo conformismo. In sostanza le imprese dovrebbero comportarsi in maniera opposta a come si stanno comportando i giocatori della nazionale di calcio italiana che speriamo non siano lo «specchio del Paese».



[4] M. Winkler, G. Strazio, L’abominevole diritto. Gay e lesbiche, giudici e legislatori, Milano, Il Saggiatore, 2011, p. 147.

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