Articolo 3

08/06/2021 Simona Cuomo

Il privilegio è invisibile a chi lo possiede

Ancora troppo spesso chi detiene privilegi (di genere) non ne percepisce i vantaggi in termini economici e sociali. Questa inconsapevolezza produce effetti di normalizzazione su determinati atteggiamenti – come le offese, la denigrazione o una certa cultura dello stupro – che invece dovrebbero essere denunciati pubblicamente.

Tre recenti casi di cronaca dimostrano come riflettere sulla natura del proprio privilegio sia il primo passo necessario per metterlo in discussione.

 

Tre fatti inerenti alla discriminazione di genere hanno dominato la cronaca di questi ultimi due mesi. Episodi apparentemente a sé stanti, anche per il differente livello di gravità e impatto per le donne coinvolte[1].

Il primo[2] ’risale al 6 aprile scorso, quando la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ’durante un incontro ad Ankara con Erdoğan è stata lasciata senza sedia mentre il capo di Stato turco e il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel erano seduti uno accanto all’altro su due sedie con alle spalle le bandiere ’dell’UE e della Turchia. Secondo il protocollo non c’è stata alcuna scorrettezza, ma nel 2015 il predecessore della von der Leyen Jean-Claude Juncker sedette invece accanto al leader turco senza problemi. Uno sgarbo, oltre che istituzionale, personale rivolto alla presidente in quanto donna e occidentale.

Il secondo[3] riguarda il caso della violenza sessuale di gruppo denunciata lo scorso aprile da una studentessa e che è oggetto di indagine da parte della procura, in cui sono indagati Ciro Grillo, figlio di Beppe Grillo, e altri tre coetanei. Quello che colpisce di questo atto di violenza collettiva sono state le giustificazioni allo stupro e la colpevolizzazione della vittima da parte di chi rappresenta uno dei maggiori partiti al governo del nostro Paese.

Il terzo episodio[4] si riferisce alle parole pronunciate dal direttore generale della nazionale cantanti Gianluca Pecchini («Sei una donna, non puoi stare qui») nei confronti di Aurora Leone, cantante dei The Jackal. Aurora era stata convocata per partecipare alla «Partita del cuore» prevista per martedì 25 maggio 2021. Ma durante la cena prima dell’incontro le è stato chiesto di rinunciare alla partita e di non indossare la divisa da calcio che le era stata cucita sugli spalti della tribuna:
«Da quando in qua le donne giocano?».

Abbiamo già scritto[5] come la parola «violenza» implichi la forza e la costrizione fisica e non possa non far venire in mente tutti quegli atti che costituiscono forme meno esplicite ma ugualmente violente: il raggiro, il condizionamento psicologico, la persuasione verbale o l’ubriacatura. Tali comportamenti, anche se meno visibili, sono adottati per offendere e delegittimare; eppure, coloro che incarnano il potere li ritengono legittimi.

La parità di genere è un argomento che dovrebbe interessare tutt*, perché parlarne significa interpretare la società che ci circonda, considerarne i limiti e le contraddizioni e rendere evidenti i privilegi che, cristallizzati nel tempo, assumono i confini della normalità. Senza questo percorso di emersione sembra un atteggiamento abituale e corretto offendere, stuprare, denigrare. Ancora troppo spesso chi detiene i privilegi non ne percepisce il peso e l’inconsapevolezza di questi porta a considerare la parità (di genere) un tema altro da sé; qualcosa che, addirittura, infastidisce.

Ciò che accomuna i tre episodi di cronaca citati è la normalizzazione, da parte di chi gestisce il potere sociale ed economico, dell’offesa e della violenza. Riflettere sulla natura del proprio privilegio è il primo passo per metterlo in discussione e riuscire quindi a immedesimarsi in chi viene  offesa o violentata, assumendo che l’altro sia una persona indipendentemente dalla sua identità e posizione sociale. Senza un adeguato e profondo percorso di riflessione, l’immagine di sé rimane circoscritta e quindi fuorviante, rendendo invisibile il privilegio per chi lo possiede. Questo si palesa soltanto nel momento in cui si è in grado di rapportarsi consapevolmente con l’esperienza altrui, con l’esperienza di persone che stanno in una posizione diversa da quella del privilegio.

I fatti raccontati, in virtù della loro rilevanza mediatica, diventano paradigmatici e in grado di farci riflettere su altri modelli di relazione fondate sul privilegio: per esempio quelli che, nel mondo del lavoro, definiscono le relazioni tra capi e collaboratori. Relazioni che, se vissute senza rifletterci, sono alla base di fenomeni di esclusione e discriminazione.

 

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